Caso carne equina, sono veramente efficaci le leggi europee?

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Tracciabilità contro il rischio frodi?

Come denuncia Coldiretti, lo scorso  anno sono stati importati in Italia trenta milioni di kg di carne di cavallo senza l’obbligo di indicarne la provenienza in etichetta nella vendita al dettaglio, come ingrediente nei prodotti trasformati. La denuncia arriva dopo la decisione di Nestlè di ritirare dai punti vendita di Italia e Spagna ravioli e tortellini di manzo Buitoni in cui sono state rinvenute tracce di DNA equino nella misura dell’1%. Un’iniziativa presa anche da altri Paesi europei che induce Coldiretti a parlare di gravi ritardi della normativa comunitaria nel garantire la trasparenza degli scambi e prevenire le frodi. Sempre secondo Coldiretti, gli italiani sono tra i maggiori consumatori di carne equina in Europa, con un quantitativo medio di 1 kga testa per un totale di 42,5 milioni di kg. Circa 30 milioni di carne di cavallo, asino o mulo sono stati importati in Italia nel 2012 provenienti, secondo l’associazione, per quasi la metà dalla Polonia, ma anche da Francia e Spagna mentre poco più di un milione di kg  proveniente dalla Romania che sembra essere uno dei principali imputati dell’”horsegate” che sta sconvolgendo l’Europa. Sempre secondo la denuncia di Coldiretti, le dimensioni dello scandalo confermano che il piano limitato di controlli con test del DNA approvato dall’UE è “fumo negli occhi dei cittadini se non sarà accompagnato da misure strutturali destinate a durare nel tempo, come l’obbligo di indicare in etichetta la provenienza di tutti i tipi di alimenti per evitare il ripetersi di episodi analoghi”. In Italia – sostiene Coldiretti – lo scambio di carni all’insaputa dei  consumatori è vietato dal decreto legislativo 109/1962 che obbliga a indicare in etichetta la specie animale da cui proviene la carne utilizzata come ingrediente, ma lo scandalo ripropone l’esigenza di un’accelerazione dell’entrata in vigore di una legislazione più trasparente sull’etichettatura della carne e degli alimenti a livello comunitario. Come è noto infatti nella UE è obbligatorio indicare in etichetta la provenienza della sola carne bovina, non di quella del maiale, coniglio, ovini ed equini. L’etichetta di origine – sempre secondo Coldiretti che da sempre difende e propone questa linea anche a livello europeo – rappresenta una garanzia di informazione per i consumatori ma, grazie alla tracciabilità, anche una protezione contro frodi e truffe che si moltiplicano in tempo di crisi, tanto che si registra il ritorno a reati come l’abigeato e la macellazione clandestina. Su posizioni analoghe, se pur con qualche distinguo, Altroconsumo secondo cui la normativa sulle etichette non aiuta: l’indicazione di origine delle carni bovine è infatti obbligatoria solo quando vengono vendute fresche, congelate o tritate. Criterio non applicato se la carne è utilizzata per preparazioni diverse (salsicce) o all’interno di cibi pronti (lasagne, etc.). A questo proposito Altroconsumo chiede che l’etichettatura di origine sia estesa a tutte le carni, anche quando utilizzate come ingrediente di preparazioni e prodotti alimentari. La sola etichetta d’origine non può prevenire i comportamenti fraudolenti da parte delle aziende produttrici, ma può sicuramente costituire un deterrente. A smentire la posizione di Coldiretti è intervenuto, nel corso di una trasmissione televisiva (Rai 3), il Commissario europeo alla salute dei consumatori, il maltese Toni Borg che, come riporta Roberto La Pira(www.ilfattoalimentare.it), ha bocciato la teoria in quanto lo scandalo non è dovuto alla carenza di tracciabilità, ma alla malafede di chi ha trasformato la carne di cavallo in carne bovina. Il Commissario ha anche precisato che dopo la scoperta della frode, proprio grazie alla tracciabilità obbligatoria nella UE, in poche ore si è risaliti all’origine. Purtroppo, ha commentato Borg, la cattiva informazione promossa sullo scandalo ha prodotto come al solito errate convinzioni. Il problema reale è l’assenza di controlli preventivi”. In Europa praticamente nessuna azienda e nessuna istituzione conduceva analisi sulla carne equina. La scoperta della frode in Irlanda è stata casuale. Era successo due anni fa anche a Torino quando l’Istituto zoo-profilattico sperimentale Piemonte ha scoperto una frode contraria, cioè l’utilizzo di carne bovina venduta come carne di cavallo; la scoperta era da ascrivere a un evento casuale e non programmato.

Polemiche sull’efficacia della legislazione UE

Come dichiara Dario Dongo, avvocato specializzato in diritto alimentare nazionale e comunitario, “l’”horsegate” ha riacceso le polemiche sulla legislazione europea sulla sicurezza alimentare, dopo una dozzina d’anni di tranquillità. Cosa è successo? Una frode internazionale su larga scala. Perché? Un eccessivo relax sui controlli. Sul fronte privato, gli operatori alimentari coinvolti hanno privilegiato il risparmio rispetto al rigore nella selezione degli approvvigionamenti. A livello pubblico, le autorità di alcuni Stati membri hanno accordato eccessiva fiducia ad alcuni operatori. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Laddove la perdita di fiducia dei consumatori verso l’intera filiera – di produzione, distribuzione e controllo – trascende l’effettivo rischio di sicurezza degli alimenti che a tutt’oggi appare limitato. I Governi nazionali e la Commissionesono subito corsi ai ripari, ma seguono il “furor di popolo” anziché la ragione. Perché le regole già esistono, non ne servono di nuove, basta solo garantirne il rispetto”. Dongo ricorda in proposito che il “Sistema di Allerta Rapido su Alimenti e Mangimi” ha dato un ulteriore prova della sua efficacia in occasione delle ultime criticità, “ma non basta chiudere la stalla quando i buoi sono scappati, Certo, l’attivazione dell’allerta è necessaria e utile a mitigare i danni, ma è necessario intervenire prima. L’intero sistema di regole europee a presidio della sicurezza alimentare si basa infatti sulla prevenzione che deve essere assicurata da tutti gli operatori della filiera, “from the farm to the fork”, e sorvegliata dalle pubbliche autorità”. “Le crisi alimentari degli ultimi mesi in Europa – osserva Dongo – non hanno comportato gravi rischi per la salute dei consumatori. Eppure il tema della sicurezza alimentare è rimbalzato sulle cronache in un periodo storico in cui si confidava di averlo superato, proprio grazie alle normative che hanno dato seguito al Libro Bianco: il General Food Law (reg. CE 178/02) e il Pacchetto igiene (reg. CE 852,853, 854, 882/04 e successivi). Ci eravamo illusi di poterci interessare di questioni meno gravi, se pure di interesse dei consumatori, come etichette e pubblicità, benessere animale, sostenibilità della filiera, ma non è stato così”. “La Commissione europea – prosegue Dongo – pare volere tornare all’attacco per completare le regole sulla sicurezza alimentare con i tasselli mancanti che dovrebbero affiancare il sistema di allerta” Per quanto riguarda le sanzioni, “il legislatore europeo non ha potere nemmeno sulle procedure amministrative e giudiziarie che rimangono sotto la sovranità dei Paesi membri. Ma a un identico sistema di requisiti non può corrispondere una varietà di criteri di gestione, né tanto meno di sanzioni differenziate. La punizione deve essere certa e dissuasiva, come le regole di base. Per questo Bruxelles intende proporre agli Stati membri un accordo affinché le sanzioni pecuniarie da applicare ad atti deliberati di frode o di false indicazioni in etichetta siano armonizzate e rinforzate in proporzione ai vantaggi che possono derivare da tali condotte illecite. La proposta andrà al vaglio di Parlamento europeo e Consiglio, con l’auspicio di trovare operatività nel 2014”. “I sistemi nazionali di controllo che rivelino gravi inefficienze nella fase di vigilanza preventiva e/o di comunicazione e gestione del rischio  – conclude Dario Dongo – devono essere assoggettati a rafforzamento degli “audit” comunitari, se del caso ad azioni di responsabilità, tenuto conto anche del danno che possono derivare ad alcune filiere produttive, come è accaduto ai produttori di cetrioli e pomodori in Italia e Spagna nel 2011 a seguito degli errori di valutazione (tedeschi) sull’origine di rischio E.coli. Su questo punto l’esecutivo UE non si è sbilanciato per ovvie ragioni diplomatiche. Ma anche la diplomazia deve cedere il passo alle esigenze di effettiva tutela della sicurezza alimentare in Europa. Ricordo infine il tema della responsabilità dei distributori – che il regolamento (UE) n. 1169/11 ha esteso alle etichette dei prodotti  a private label – che deve essere allineata a quella dei produttori, sotto il profilo igienico sanitario, in relazione ad attività connotate da pari rischio (come il sezionamento e confezionamento di prodotti di origine animale). (Reg. CE 853/04, Igiene 2)”.      

Maria Cristina Parravicini