Cioccolato italiano, analisi dei fattori che ne influenzano la shelf-life

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Fig. 1 – Valori del numero di perossidi (espresso in meq di O2 kg-1) dopo quattro (t4), otto (t8), dodici (t12) e sedici (t16) mesi di stoccaggio
Abbreviazioni dei campioni: F (cioccolato fondente), L (cioccolato al latte), G (cioccolato gianduja). Ogni barra rappresenta la media dei valori (n=6)

Le realtà produttive sono sempre più interessate agli studi di shelf-life per ottenere misure di razionalizzazione e ottimizzazione del packaging, del processo, della logistica, oltre l’oggettiva definizione di durabilità legale. Vediamo in dettaglio

L’interesse di consumatori e aziende verso gli studi di shelf-life
Le richieste dei consumatori sono sempre più orientate verso alimenti di elevata qualità, con l’aspettativa che tale livello si mantenga dal momento dell’acquisto fino a quello del consumo. Questo non solo per garantire l’imprescindibile sicurezza dell’alimento, ma anche per minimizzare i cambiamenti indesiderati sotto il profilo sensoriale e nutrizionale. L’espressione inglese “shelf-life”, semplicemente tradotta con “vita di scaffale”, al di là del significato letterale, indica la durabilità di un prodotto in determinate condizioni di conservazione, ed è il tempo limite entro il quale il progredire di singoli eventi reattivi determina modificazioni che sono, tuttavia, impercettibili sul piano sensoriale, o comunque ancora accettabili per la sicurezza d’impiego di un alimento. L’interesse degli studi di shelf-life da parte di realtà produttive è dovuto all’opportunità di ottenere misure di razionalizzazione e ottimizzazione del packaging, del processo, della logistica, oltre l’oggettiva definizione di durabilità legale (data di scadenza o termine minimo di conservazione di un prodotto confezionato). È importante, pertanto, che i produttori abbiano a disposizione dati e strumenti per prevedere il tempo massimo di conservazione, in relazione a determinate condizioni di stoccaggio.