Motivazioni sociali al contrario

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Come è riportato nei testi e nei manuali, la progettazione degli impianti di processo, finalizzata alla costruzione di sistemi produttivi, deve sottostare a precise regole generali, comprendenti implicazioni di carattere tecnico-economico ed ambientale, oltre che, punto fermo del passaggio dalla progettazione alla costruzione, di carattere sociale. Queste ultime devono prendere a riferimento, tra l’altro, lo sviluppo socio-economico del territorio che ospita l’impianto, non solo in termini occupazionali (peraltro fondamentali), ma anche di creazione del cosiddetto indotto o del potenziamento di infrastrutture. Evidente, inoltre, che se il sito produttivo è destinato alla formulazione di alimenti, è possibile realizzare una vera e propria valorizzazione dell’area con, ad esempio, incremento del turismo, legando indissolubilmente i prodotti al territorio. In altri termini, può succedere che il territorio venga associato ai sui prodotti che diventano, in questo modo, veri veicoli di promozione. Dunque, chi realizza un’attività produttiva pone particolare attenzione anche alla spinta determinata da motivazioni sociali, senza la quale molte specialità enogastronomiche del nostro Paese non si sarebbero potute sviluppare in un modo così radicato da essere ricercate e apprezzato nel mondo. Tutto questo è ben noto e per questo, forse, potrebbe non meritare particolare attenzione. Di fatto, però, tutto questo, qualche interrogativo deve porlo se si prova a capovolgere i concetti esposti e le situazioni rappresentate. Ad esempio, la chiusura o la dismissione di un’azienda quali implicazioni sociali determina? Forse, esattamente le stesse (occupazione, indotto, infrastrutture, e altro ancora), con una differenza non marginale: tutte le implicazioni, in questo caso, determinano effetti contrari ai precedenti. Così, lo sviluppo socio-economico diventa una recessione sociale, i posti di lavoro diminuiscono e l’indotto tende a scomparire. Le infrastrutture diventano obsolete e, perfino, inutilizzabili o, meglio, inutili. Anche il legame prodotto-territorio tende, sia pure lentamente, a scemare. Chi è responsabile dalla completa mancanza di una politica industriale seria e organizzata, che di fatto determina, e quindi verrebbe da pensare progetta, la chiusura di un numero sempre maggiore di realtà produttive, mette sul piatto della bilancia tutto questo? Esiste, ai livelli più alti della politica di chi governa, la consapevolezza che perdere competitività produttiva oggi rappresenta un elevato rischio per la ripresa di domani? E’ noto, infatti, che l’affermazione in qualsiasi settore non è più esclusivamente legata al prestigio derivante dalla tradizione, bensì deve essere anche sorretta da una continua e costante evoluzione dei propri prodotti, al fine di renderli sia rispondenti alle sempre maggiori esigenze dell’utenza, sia competitivi sotto l’aspetto qualitativo. E tutto questo può essere solamente realizzato implementando tecnologicamente le produzioni, favorendo lo sviluppo e la ricerca in tutti i settori, evitando una ulteriore de-industrializzazione del Paese. Il mercato globale regala molte opportunità e le esportazioni stanno, in qualche misura, consentendo la sopravivenza di molte aziende, ma comporta anche molti rischi. Basti pensare a quanto sta succedendo nel settore nazionale del riso che minaccia un rischio “default” a causa dell’arrivo massiccio del cereale dai Paesi del Sud-Est Asiatico, con un conseguente crollo dei prezzi nel mercato europeo e nazionale. Ciò nonostante, anche in queste travagliate situazioni, chi sa differenziare e innovare le proprie produzioni viaggia in controtendenza. Ad esempio, a fronte di un calo dei consumi alimentari avvenuto nel 2013, rispetto al pari periodo 2012, di circa il 3,5%, il biologico è in forte crescita e sfiora un trend positivo del 9%. Per crescere, dunque, non solo occorre invertire la tendenza incrementando la produttività, ma è necessario, di pari passo, un salto in avanti in termini di competitività, che è solo possibile con la ricerca e lo sviluppo innovativo.

Dante Marco De Faveri