Marco Caspani, tutte le sfide di un tecnologo

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IMG_0013La normativa ha dei punti di debolezza?
A mio parere, il più rilevante, è il non aver imposto uno specifico background professionale per i “consulenti dell’autocontrollo”. Poiché l’autocontrollo igienico è spesso inteso come prestazione aggiuntiva a quelle abitualmente erogate al cliente, ci si imbatte in manuali redatti da professionisti delle più diverse estrazioni culturali: tecnologi alimentari, biologi, medici, chimici, agronomi, veterinari, dietisti, ingegneri, informatici, ragionieri, commercialisti, geometri. Non avendo competenze specifiche e cognizione dell’importanza della materia, molti hanno improvvisato e danneggiato il cliente vendendogli manuali generici, non attinenti alla realtà produttiva o prescrivendo frequentissime analisi indicate come obbligatorie, quando in realtà non lo sono, pur essendo utilissime se inserite con buonsenso in un programma di verifica del sistema.

Su questo terreno si muovo altri attori…
Le Associazioni di settore hanno predisposto Manuali di buona prassi igienica soggetti ad approvazione del Ministero; sono manuali di settore che ogni associato deve adattare alla propria realtà produttiva. Le imprese distributrici di impianti, attrezzature e prodotti per la sanificazione sono altrettanto infaticabili “redattrici di piani di autocontrollo”. Alcune colgono l’occasione per vendere macchine, detergenti e sanificanti spacciati per “conformi” od “omologati per l’HACCP”, ma la legge non parla di specifiche conformità od omologazioni. A tali vendite sono abbinate elargizioni di manuali di autocontrollo generici e spesso inattuabili, ma che inducono il cliente a ritenere di avere così assolto agli obblighi di legge.

Come si comportano le autorità di controllo in questi casi?
Riscontro talvolta differenze di approccio tra funzionari di diverse regioni, aziende sanitarie diverse, servizi di una stessa azienda e singoli addetti. La loro vigilanza è importantissima, ma non può essere continua presso ciascuna azienda, rileva solo irregolarità già in atto. Ha un effetto deterrente, può prescrivere, sanzionare, informare ma il responsabile dell’autocontrollo è l’operatore del settore alimentare. Imprenditore ed addetti sono presenti ogni giorno in azienda, ne conoscono le specificità, sono gli unici in grado di esercitare una costante prevenzione.

Quali sono le non conformità che rileva maggiormente nelle aziende dove opera?
Schede di registrazione compilate a tavolino, attestanti controlli non eseguiti. Per esempio schede di registrazione della temperatura precompilate per l’intero mese: stessa mano, stessa penna, stessa temperatura, stessa ora. Per non essere inutili, le registrazioni devono attestare un avvenuto controllo; è importante che l’azienda rifletta su cosa valga davvero la pena registrare. Mi spiego meglio: l’elenco fornitori è indispensabile per tutti, ma perché inserire un controllo al ricevimento merci per poi non farlo, lasciare che la merce sia scaricata dal fornitore e resti a temperatura ambiente finché il magazziniere si ricorda di metterla in cella? Tanto vale eliminare il controllo e compilare, se è il caso, la scheda delle non conformità. E’ difficile far capire che l’obbligo non è registrare le temperature, ma è rispettare la catena del freddo.

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Ci sono gap generazionali in merito all’adozione del sistema HACCP?
Le nuove realtà sono più propense ad accettare le regole, chi lavora da anni ha spesso atteggiamenti del tipo “se non fossi obbligato non lo farei perché non serve a nulla” o ancora “abbiamo sempre fatto così e non è mai morto nessuno”. La mentalità cambia in caso di rilevazione di una non conformità e relativa sanzione, solo allora ci si rende conto di produrre un alimento che può mettere a rischio la salute delle persone. È la mentalità tipicamente italiana del “finché non sono colto in fallo continuo per la mia strada”.

Ci sono altri tasti dolenti?
Lo stoccaggio; trovo prodotti accatastati, stoccati a terra, sacchi mal richiusi, etichette mancanti con conseguente perdita di tracciabilità e date di scadenza, ingredienti che hanno di gran lunga superato scadenza e TMC, ingredienti acquistati fuori dai canali istituzionali. Ci sono poi la sovrapposizione di attività diverse, il poco rispetto dell’ambiente di lavoro, l’entrata di estranei mentre la lavorazione è in corso. Quando sottolineo questi aspetti mi sento rispondere “a noi si chiedono tutte queste onerose precauzioni, poi si ammettono i mercati e street food”, a volte penso che sia una battaglia persa.

Esiste un’analisi dei rischi senza CCP?
Non c’è CCP se non c’ è una misura di controllo applicabile ad una fase del processo produttivo atta a ridurre, annullare o garantire che un dato pericolo resti a livello accettabile. Quando in una fase di produzione, un parametro è fuori limite, si è in via teorica di fronte a un CCP, sempre che in una fase successiva il pericolo in questione non sia “neutralizzato”. In questi casi la prima fase è un CP, la seconda è un CCP ed il controllo permette di verificare l’efficacia della neutralizzazione. L’Autorità di controllo valuterà poi la correttezza dell’impostazione del sistema.

I suoi prossimi traguardi professionali?
Mi piacerebbe continuare a sviluppare la mia professionalità ed affacciarmi ad aziende più grandi, lavorare in più settori possibile comprese le certificazioni di prodotto e di sistema. Nel lungo periodo mi vorrei fare un’esperienza all’estero per confrontarmi con mercati diversi. La immagino come un arricchimento professionale ed umano, un modo per conoscere la cultura del luogo, vivere con e come i locali, darmi nuovi stimolanti obiettivi e raggiungerli.