La sentenza. Poiché nel caso di specie la superficie interessata allo spandimento “aveva ricevuto 300 mc d’acqua di vegetazione, mentre avrebbe potuto tollerarne al massimo 30-40 mc, determinando in tal modo la modifica della configurazione dei luoghi”, la Suprema Corte ha affermato la sussistenza del reato previsto dall’art.256, comma secondo, D.Lgs.3 aprile 2006, n.152, confermando la sentenza di condanna della Corte d’Appello di Lecce.
Il Diritto. Con sentenza n.24361 del 10.6.2016 la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi della “fertirrigazione”, la cui disciplina si pone in deroga alla normativa sui rifiuti di cui al T.U.152/2006, rispetto alla quale è autonoma ed indipendente. Detta pratica presuppone “l’effettiva utilizzazione agronomica delle sostanze, la quale implica che essa sia di una qualche utilità per l’attività agronomica e lo stato, le condizioni e le modalità di utilizzazione delle sostanze compatibili con tale pratica”; da ciò consegue “la necessità che, in primo luogo, vi sia l’esistenza effettiva di colture in atto sulle aree interessate dallo spandimento, la quantità e qualità degli effluenti sia adeguata al tipo di coltivazione, i tempi e le modalità dì distribuzione siano compatibili ai fabbisogni delle colture e, in secondo luogo, che siano assenti dati fattuali sintomatici di una utilizzazione incompatibile con la fertirrigazione quali, ad esempio, lo spandimento dì liquami lasciati scorrere per caduta, effettuato a fine ciclo vegetativo, oppure senza tener conto delle capacità di assorbimento del terreno con conseguente ristagno”.