Prodotti alimentari, le problematiche in materia di etichettatura

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L’Etichettatura dei prodotti alimentari, dopo circa 40 anni dalla sua prima applicazione comunitaria, richiama sempre più l’attenzione di imprese, esperti ed organi di controllo. Facciamo il punto della situazione.

Giuseppe De Giovanni

Sia le direttive che il regolamento (UE) n.1169/2011 hanno posto bene in evidenza i diversi aspetti distinguendo i prodotti oggetto di libera circolazione comunitaria dai prodotti destinati al solo mercato interno. Il regolamento 1169/2011, mentre lascia molto spazio all’iniziativa degli Stati membri per quanto riguarda i prodotti sfusi (non preconfezionati), che in via generale non sono oggetto di libera circolazione, preclude ogni possibilità sui prodotti preconfezionati, su cui può legiferare solo l’Unione europea, a eccezione di modesti interventi che devono in ogni caso essere autorizzati dall’Unione europea. Fino al 2011 la materia era oggetto di direttive.  A partire da quell’anno si è passati al regolamento: il motivo di fondo è da rilevarsi nella necessità di stabilire regole uniche nell’etichettatura degli alimenti, allo scopo di evitare problemi nella circolazione comunitaria, determinare regole uniche per le imprese qualunque fosse il paese di appartenenza e garantire identica informazione per i consumatori comunitari. Con le direttive, invece, alcuni settori economici ricorrevano all’annosa politica di salvaguardia degli “interessi di bottega”, tramite interventi politici nazionali, pur sapendo che le direttive non contemplavano questa finalità. Col regolamento sono state eliminate tutte le deroghe precedentemente consentite, in quanto non garantivano la libera circolazione e appesantivano la realizzazione di etichette specifiche destinate ai Paesi che consentivano deroghe e agevolazioni, a volte a danno dell’informazione ai consumatori. La possibilità di deroghe è ancora prevista, ma nel rispetto di precise e tassative regole. La loro determinazione, da rispettare per poterle prevedere, sembrava una garanzia, per assicurare la libera circolazione dei prodotti in modo serio. Invece sembra che ogni Paese voglia continuare ad operare per proprio conto, trascurando le regole comunitarie e la giurisprudenza della Corte di giustizia in materia nonché, eventualmente, la giurisprudenza nazionale dettata dalle Corti supreme.

Il caso Italia

La Francia e l’Italia sono i paesi che più di tutti hanno dimostrato il loro dissenso in materia.  In Italia è significativo quello che si è verificato: da una parte gli operatori fanno quel che vogliono, ben sapendo che i controlli sono rari, e, dall’altra, le autorità, piuttosto che porre un freno ai comportamenti anomali, preferiscono assecondarli, mettendo in essere norme che sanno che non potranno mai essere applicate, perché non conformi al diritto comunitario e alla giurisprudenza della Corte di giustizia. L’Italia, purtroppo, in questa materia è recidiva, essendo stata già condannata della Corte di giustizia per quanto riguarda gli obblighi imposti circa l’indicazione dell’origine nell’etichettatura dei formaggi freschi a pasta filata. Altri casi delicati di violazione di norme comunitarie riguardano la mancata notifica di alcuni progetti di norme nazionali. La Commissione aveva già richiamato le autorità italiane sulla necessità di rispettare la giurisprudenza della Corte di giustizia: “Sentenza della Corte di giustizia del 30 aprile 1996, secondo cui   le regole tecniche adottate in violazione della procedura 98/34 (causa C-194/94 – Raccolta della Giurisprudenza pag 1-2001) sono inapplicabili”. Anche se il Regolamento (UE) n.1169/2011, tra le modifiche importanti apportate, ha reso inapplicabile all’etichettatura dei prodotti alimentari la procedura della direttiva 98/34/CE, ha lasciato invariato l’obbligo di notifica dei progetti, previsto all’articolo 45. A ciò si aggiunge ora l’inerzia dei competenti servizi della Commissione che non intervengono energicamente a frenare certe richieste, non dirette a migliorare il sistema di informazione dei consumatori, ma solo a soddisfare esigenze specifiche dei settori economici. Così facendo la portata del regolamento viene vanificata: invece di garantire la libera circolazione, si pensa solo ad assicurare il protezionismo nazionale. Questa situazione da una parte, almeno per quanto riguarda l’Italia, pone in evidenza:

  • la responsabilità degli esperti degli Stati membri, che non rappresentano i problemi dei loro Paesi nel corso degli incontri comunitari.

E dall’altra:

  • la responsabilità delle organizzazioni professionali di categoria che non fanno sentire la loro voce a tempo e a luogo e si adoperano, invece, nei momenti successivi per stravolgere il contenuto della

A tal fine, è opportuno anche richiamare l’attenzione sulla sentenza n.443/1997 con la quale la Corte Costituzionale ha posto in evidenza che “ogni limitazione imposta dalla legislazione nazionale alla fabbricazione ed alla commercializzazione delle paste alimentari nel territorio italiano, che non rinvenga nel trattato o, più in generale, nel diritto comunitario il proprio fondamento giustificativo, così da poter essere applicata egualitariamente nei confronti di tutta la produzione commercializzata in Italia, si risolve in uno svantaggio competitivo e, in ultima analisi, in una vera e propria discriminazione a danno delle imprese nazionali”. La sentenza, pur emessa in un procedimento relativo alle paste alimentari, enuncia un principio applicabile a tutta la produzione alimentare. Inoltre la sentenza precisa, per quanto riguarda i rapporti tra OSA nazionali e OSA comunitari: “In assenza di una regolamentazione uniforme in ambito comunitario, il principio di non discriminazione tra imprese che agiscono sullo stesso mercato in rapporto di concorrenza, opera, nella diversità delle discipline nazionali, come istanza di adeguamento del diritto interno ai principi stabiliti nel trattato; opera, quindi, nel senso di impedire che le imprese nazionali siano gravate da oneri, vincoli e divieti che il legislatore non potrebbe imporre alla produzione comunitaria: il che equivale a dire che, nel giudizio di eguaglianza affidato a questa Corte, non potevano essere ignorati gli effetti discriminatori che l’applicazione del diritto comunitario è suscettibile di provocare”. Se quanto rilevato dalla Corte Costituzionale venisse preso in considerazione seriamente, nessuna richiesta normativa avanzata dal mondo economico alle autorità nazionali potrebbe essere accolta. Invece le autorità nazionali, per interesse politico elettorale, sono sempre condiscendenti verso le richieste suddette. Fatte queste premesse giova verificare la situazione di mercato in Italia, dove le imprese dimostrano sempre di più che in materia possono fare quel che vogliono; anzi si uniscono pensando che, se a sbagliare sono in tanti, l’infrazione è meno dolorosa.  Pensando di fornire maggiore informazione ai consumatori, violano le norme. Richiamare tutto non è possibile, ma almeno sugli aspetti più importanti rilevati è possibile soffermare l’attenzione:

1) Articolo 15 – Requisiti linguistici

C’è l’obbligo di informare il consumatore nella propria lingua nazionale. In Italia l’etichetta deve essere realizzata in lingua italiana ed invece circolano tanti prodotti fabbricati in altri Paesi, etichettati nella lingua d’origine e, a volte, anche in inglese.  La giustificazione è data dal fatto che il decreto legislativo n.231/2017 nulla ha prescritto in materia. E’ vero, ma il Codice del Consumo prescrive che nessun prodotto può circolare sul mercato italiano se le indicazioni obbligatorie non figurano in lingua italiana. Le indicazioni obbligatorie possono figurare anche nelle altre lingue, ma quella italiana rimane obbligatoria ed i relativi caratteri non possono essere inferiori a quelli figuranti in altre lingue.

2) Articolo 13 – Presentazione delle indicazioni obbligatorie

Il comma 1 precisa, nell’ultimo periodo, che le indicazioni obbligatorie “non sono in alcun modo nascoste, oscurate, limitate o separate da altre indicazioni scritte o grafiche o altri elementi suscettibili di interferire”. La Commissione UE ha anche precisato che le denominazioni di vendita devono figurare in modo uniforme con la stessa grandezza di caratteri.  Che cosa si verifica invece sul mercato? Ecco:

  • Le “acque minerali naturali” (denominazione legale) sono presentate con l’indicazione del nome della sorgente o dell’imbottigliatore riportato tra le parole “minerali” e “naturali”.
  • I succhi di frutta non riportano generalmente la denominazione prevista dalla specifica direttiva, ma figurano col nome del frutto riportato in caratteri grandi ed il resto in caratteri più piccoli. Lo stesso si può dire per le confetture. Esempio: “ALBICOCCA Succo e polpa di frutta” invece di “Succo e polpa di albicocca”.
  • Il pane dovrebbe essere commercializzato conformemente alle disposizioni della legge n. 580/67, invece viene generalmente utilizzato il nome di fantasia “pane casareccio”, “ciriola”, “michetta”, ecc.

3) Senza glutine

Questa dicitura, fino a qualche anno fa, faceva rientrare i relativi prodotti nella categoria dei prodotti dietetici. Il regolamento (UE) n.828/2014 ha trasferito la materia nel regolamento (UE) n.1169/2011 sull’etichettatura sottoponendola alle relative condizioni di utilizzo. In sostanza la dicitura deve essere conforme ai principi enunciati all’articolo 7, paragrafo 1, lettera c) del regolamento.  In pratica esiste il divieto di utilizzo nei casi in cui il prodotto è ottenuto con ingredienti che naturalmente non contengono glutine.  Risulta evidenziata al riguardo una diversa posizione del Ministero della salute, ma occorre considerare che la normativa non presenta aspetti sanitari, ma solo merceologici per informare il consumatore e non per prenderlo in giro: una diversa impostazione non giustificherebbe l’adozione del regolamento (UE) n.828/2014. Scrivendo su un formaggio o su un minestrone la dicitura“senza glutine”, si fornisce un messaggio ingannevole, in quanto tutti gli analoghi prodotti  hanno le stesse caratteristiche, cioè sono senza glutine.

4) Presentazione dei prodotti

Tra le pratiche leali di informazione figura la presentazione dei prodotti, di cui al paragrafo 4, lettera b), dell’articolo 7. Si tratta di   un concetto di grande importanza finalizzato ad evitare concorrenza sleale tra imprese. La presentazione riguarda gli aspetti esteriori dei prodotti, in particolare la forma, soprattutto è tipica di prodotti tutelati, quali panettone e pandoro, l’aspetto o l’imballo o il materiale di imballo. I prodotti di imitazione non possono essere presenti sul mercato ricorrendo a formulazioni di concorrenza con i prodotti tutelati. Ma c’è qualcosa che riguarda anche la responsabilità delle imprese commerciali ed è il modo in cui i prodotti sono disposti negli scaffali. Mettere, infatti, sullo stesso scaffale prodotti aventi diversi requisiti, significa   voler confondere l’acquirente sulla natura degli stessi.

5) Articolo 17 – Denominazione dell’alimento

La denominazione richiesta dal regolamento (UE) n.1169/2011 è il nome (non l’aggettivo) prescritto dalla vigente normativa nazionale. Spesso manca (taluni prodotti DOP e IGP) o, se figura, è riportata con caratteri di grandezza non conforme a quanto previsto agli articoli 13 e 37 del regolamento.

6) Allegato VI, parte A, punto 1 – Indicazione del trattamento o stato fisico del prodotto

La violazione è totale, riguarda cioè tutti gli alimenti surgelati, nel senso che quasi tutte le imprese si comportano nello stesso modo. Che cosa viene rilevato? Il nome del prodotto figura in etichetta senza l’indicazione del trattamento, ma viene aggiunta una dicitura volontaria considerata “nome del prodotto” accompagnata dal termine “surgelato”. La presentazione potrebbe essere accettata se la grandezza dei caratteri fosse conforme all’articolo 37 del regolamento. La violazione c’è sempre, comunque: se viene considerata “denominazione” la specialità gastronomica, i relativi caratteri risultano essere più piccoli della descrizione. La descrizione non è accompagnata dall’indicazione del trattamento. Un altro esempio riguarda la “Lasagna al ragù di carne”, accompagnata dalla dicitura “Lasagna di pasta fresca all’uovo farcita con ragù di carne bovina. Surgelata”.   L’uso del termine “carne” senza alcun riferimento all’origine (suina, bovina, ecc.) non è corretto. L’obbligo di completare la denominazione col termine “surgelati” è prescritto anche dal decreto legislativo n.110/1992 sugli alimenti surgelati. Peggiore ancora è il comportamento dei soggetti che indicano il riferimento al trattamento accanto alla quantità, ben sapendo che il regolamento prescrive che la denominazione “comprende o è accompagnata da un’indicazione dello stato fisico in cui si trova il prodotto o dello specifico trattamento che esso ha subito”. E’ evidente, quindi, il posto dove detta indicazione deve figurare.

7) Additivi

Il regolamento (UE) n.1169/2011 si limita a definire in materia le modalità di indicazione nell’etichettatura, anche se lo stesso messaggio viene fornito dallo specifico regolamento relativo agli additivi, il regolamento (CE) n.1333/2008. I principi di utilizzo, invece, sono prescritti solo da quest’ultimo, a norma del quale l’uso degli additivi deve rispondere ai seguenti criteri:

  • essere autorizzati e possedere i requisiti di purezza prescritti;
  • rispondere ad una necessità tecnologica;
  • presentare un vantaggio per i consumatori, senza trarlo in errore;
  • utilizzo nei casi e nelle dosi massime consentite;
  • etichettatura conforme a quanto prescritto dal regolamento (UE) n.1169/2011.

Questi 5 criteri devono sussistere sempre. La mancata osservanza anche di uno solo rappresenta un uso irregolare degli additivi. Generalmente il criterio che non viene considerato nella preparazione di un prodotto è “l’esigenza tecnologica”.  Si ritiene, complice l’assistenza di numerosi consulenti, che è sufficiente l’indicazione dell’additivo nelle liste comunitarie, per poter essere utilizzato.  La norma è scritta in modo semplice e chiaro e non presenta dubbi di interpretazione. La lista dei problemi potrebbe continuare, ma è opportuno fermarsi, con l’auspicio che il buon senso prevalga ed aiuti le imprese verso un maggior rispetto del consumatore, nel rispetto dei principi stabiliti dalle norme e tenendo conto che il consumatore è oggi in grado di percepire il significato dei messaggi che vengono forniti sugli imballi.

 

 

 

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    1 COMMENTO

    1. Salve, sono Silvia Giatti, ho letto l’articolo di Giuseppe de Giovanni e chiedo la possibilita’ di saper le sue pubblicazioni, nomi e case editrici , grazie

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