Valorizzare i sottoprodotti dell’industria alimentare

1809
Giorgia Spigno

Per molto tempo considerati scarto, ora i sottoprodotti dell’industria alimentare hanno una nuova vita. Ne beneficiano l’ambiente, le aziende che li producono, le filiere che li trasformano in nuovi ingredienti o materie prime per il packaging o li convertono in energia.

Lo smaltimento dei sottoprodotti dell’industria alimentare, se relegati al ruolo di rifiuti organici, ha un impatto negativo sull’ambiente e comporta ingenti costi per il trattamento di pre-smaltimento. Per contro la loro valorizzazione influisce positivamente sull’ economia generale e sulla economia delle aziende che li utilizzano come nuove risorse.

Ne abbiamo parlato con Giorgia Spigno, professore ordinario in Scienze e tecnologie alimentari presso la facoltà di Scienze Agrarie, Alimentari e Ambientali, DiSTAS – Dipartimento di Scienze e Tecnologie Alimentari per una filiera agro-alimentare sostenibile – Campus di Piacenza-Cremona, e coordinatrice del Corso di Laurea Magistrale in Scienze e Tecnologie Alimentari della medesima Università.

Fin dal suo esordio come ricercatrice, Giorgia Spigno si è occupata della valorizzazione dei sottoprodotti dell’industria alimentare, anticipando temi oggi di grande attualità come: il passaggio all’economia circolare e la necessità di un intenso rapporto di collaborazione tra mondo scientifico e industria.

Quale è stato il suo percorso di studi?

Ho frequentato il liceo scientifico (il mio caro Liceo Amaldi di Novi Ligure). Attribuisco la mia scelta di allora ad una innata predisposizione per le materie scientifiche, alla maestra delle elementari che mi ha trasmesso la passione per la matematica ed ancora all’avere come modello di vita un padre ingegnere chimico. Pensavo di seguire le sue orme, ma in quinta liceo cominciarono i dubbi.

Temevo di non essere all’altezza di un corso di studi molto specialistico, non mi ritenevo del tutto adatta al ruolo che avrei ricoperto, avevo un rapporto di amore e odio con il cibo…e, non so come, iniziai a valutare la possibilità di iscrivermi ad Agraria. Parlai con un agronomo amico di mio padre. Mi consigliò di prendere in considerazione il percorso in Scienze e tecnologie alimentari.

Quando lessi il programma fu amore a prima vista. Diverse materie si sovrapponevano a quelle previste dal corso di ingegneria chimica (matematica, fisica, chimica, impianti). Quando mi iscrissi all’università di Piacenza non avrei mai immaginato di avere come docente di impianti un ingegnere chimico il professor Dante Marco De Faveri) che dopo la laurea mi spronò ad integrare gli studi con un dottorato in Ingegneria Chimica e di Processo presso l’Università degli Studi di Genova.

L’ITER PROFESSIONALE

Quale è stato il suo iter professionale?

Dopo la laurea il “mio professore” (parlo dell’ingegner De Faveri, i professori erano tanti, ma lui è sempre stato e sempre sarà IL PROFESSORE) mi propose di restare in Università. Sono convinta che essere bravi (o pensare di esserlo) e impegnarsi sempre al massimo delle proprie capacità sia la conditio sine qua non per raggiungere i propri traguardi.

Nella ricetta del piatto stellato ci sono però altri due ingredienti segreti: trovarsi al posto giusto nel momento giusto e riuscire a capirlo. Non sono certa di aver usato il secondo ingrediente in maniera consapevole, ma ero lì, risposi sì e cominciai a lavorare.

Prima il dottorato, poi il ruolo di ricercatore, tante esercitazioni come assistente del professore, il primo corso di insegnamento, l’assistenza a tanti tesisti del professore, il primo studente che chiese di fare il progetto di tesi con me, il lavoro in tanti progetti coordinati dal professore, il mio primo progetto come referente scientifico… una storia simile a quella di tanti altri miei colleghi.

Perché ha risposto “si”?

Ho passato gli anni della scuola dell’obbligo giocando a fare la maestra. Non ricordo se volessi diventarlo davvero, ma so che per me era un efficace metodo di studio. Sono sicura di non avere mai pensato all’insegnamento durante il liceo e l’Università, sino a quando il mio professore mi prospettò questa possibilità.

A volte mi chiedo se sono stata davvero io a scegliere questo tipo di carriera o se non sia stata la carriera a scegliere me. Lavorando ho scoperto che la docenza e la ricerca offrono un’infinità di spunti e occasioni straordinari. I primi anni non lo vedevo come un “lavoro” nel senso comune del termine. Uscendo di casa pensavo “vado a scuola”, non “vado al lavoro”. In seguito, al crescere delle responsabilità, i momenti più piacevoli si riducono e l’Università diventa “un lavoro”.

LA FORMAZIONE DELLE GIOVANI GENERAZIONI

Che ruolo ricopre oggi?

Sono professore ordinario. In italiano la parola “ordinario” rende poco l’idea. La definizione è “professore di ruolo che, superato positivamente il prescritto periodo di straordinariato, è stato definitivamente confermato nell’ufficio”. Dal latino ordinarius, «conforme all’ordine». Trovo più aderente alla realtà la definizione anglosassone di “full professor”. È il più alto grado raggiungibile da un docente universitario nonché sinonimo di maturità professionale.

Il professore ordinario dovrebbe avere comprovate capacità di ricercatore e di insegnante, sa attirare finanziamenti, coordinare e guidare dei gruppi di ricerca, dialogare con il mondo industriale, sa fare le scelte giuste per il proprio dipartimento, la propria università, i collaboratori e gli studenti, ma soprattutto è al servizio degli altri. È raro arrivare a questo traguardo prima dei 50 anni, specie nei settori scientifici.

Oggi sono un giovane professore ordinario, impegnato a onorare pienamente il proprio ruolo. Da due anni sono anche coordinatore del Corso di Laurea Magistrale in Scienze e Tecnologie Alimentari. È un compito che mi entusiasma. Mi iscrissi alla Università Cattolica, quando la laurea in Scienze e tecnologie alimentari era al suo terzo anno di vita. Lavorando qui ho avuto l’onore di contribuire al miglioramento del corso di studi e mi sto impegnando per migliorarlo ancora.

È un lavoro gratificante?

Direi “dipende” o “più sì che no”. Mi gratificano i risultati raggiunti, le pubblicazioni accettate da riviste di prestigio, i finanziamenti approvati, le collaborazioni con aziende, l’avere a che fare con i giovani, vederli crescere professionalmente e raggiungere i loro traguardi. Mi gratifica avere libertà di scelta nei temi di ricerca e nelle modalità di progettazione ed attuazione degli studi, viaggiare per lavoro e vivere in ambienti internazionali multiculturali. Mi gratifica tutto, tranne il tempo che dedico a questo lavoro. Comincio a pensare che sia davvero troppo…

I temi trattati in aula danno agli studenti delle solide basi teoriche, spendibili in qualsiasi loro contesto lavorativo futuro ma forniscono anche elementi pratici subito spendibili in azienda?

Mi piace questa domanda. Mi permette di provare a fare chiarezza, su un aspetto cui tengo molto. Alcune aziende “accusano” le Università di non preparare adeguatamente i laureati per il mondo del lavoro. Lamentano lo sbilanciamento delle competenze a favore delle nozioni teoriche, mentre mancherebbero nozioni pratiche di immediata spendibilità nell’industria.

Non sono d’accordo, specificherei per il “loro” mondo del lavoro. L’Università deve formare persone capaci di inserirsi in ambiti lavorativi differenti: l’industria in senso lato, la consulenza, il mondo accademico e quello della ricerca. Fornire solide basi teoriche è l’unico strumento per avere persone non solo capaci di lavorare nell’attuale contesto ma anche su temi che pur non trovando una immediata applicazione pratica possono gettare le basi per progetti futuri.

I nostri percorsi di laurea danno ampio spazio alla parte pratica, ma senza una base teorica la pratica rischia di restare fine a sé stessa, con poche prospettive di evoluzione. Noi cerchiamo di educare, ossia fornire conoscenza e affinare le capacità di ragionamento e giudizio. Prepariamo gli studenti a prendere decisioni e fare scelte informate.

In un periodo difficile come l’attuale, come riesce a motivare i suoi studenti, convincendoli ad investire energie per raggiungere degli obiettivi che a volte sembrano lontanissimi?

È una domanda che mi fa riflettere su come gestisco questo aspetto. Nelle mie lezioni evidenzio l’utilità dei contenuti illustrati. Cerco anche di invitare a parlare dei professionisti, meglio se nostri Alumni, che possano dare consigli su come muoversi dopo la laurea e illustrare risvolti della professione che a uno studente possono sfuggire.

Un ex alunno che ha raggiunto un buon livello professionale trasferisce valore e credibilità allo studio, infonde ottimismo, convince più di un insegnante. Il contesto è difficile ma bravura, impegno e disponibilità ad affrontare un mondo del lavoro flessibile e mutevole saranno ripagati. Ne sono convinta e ne ho diversi esempi. Cerco di trasmettere questo messaggio in aula e a chi lavora con me.

LA RICERCA

Come si scoprono e si formano nuovi ricercatori di talento?

È una delle capacità richieste al professore ordinario. Non vorrei sembrare presuntuosa, ma difficilmente sbaglio nel valutare le potenzialità di un mio studente. Guardo la persona nella sua interezza e cerco di capire se ha la predisposizione per la ricerca e se sarà in grado di sostituirmi in futuro. Deve avere tanta pazienza, essere disposto a lavorare ben oltre le rituali 40 ore settimanali, non porsi limiti nel viaggiare, essere oltremodo curioso.

Scelgo collaboratori con tratti compatibili con il mio modo di vedere e vivere questo lavoro abbracciandone gli aspetti positivi e gli aspetti negativi. Quando il mio professore decise di puntare su di me seppe valorizzare le mie capacità ed aiutarmi a maturare dandomi tempo e spazio. Adesso i tempi sono più frenetici. Un ricercatore deve sapersi adattare a questa nuova situazione.

Quali tra le molteplici ricerche da lei svolte l’hanno particolarmente entusiasmata? Per quale motivo?

Nei 23 anni dedicati sino ad ora alla ricerca, il tema prevalente è stato la valorizzazione dei sottoprodotti delle produzioni agro-alimentari. Ho studiato come ottenere e recuperare varie frazioni o composti che potessero trovare svariati impieghi, dal settore alimentare al packaging. Al mio esordio, la maggior parte dei colleghi si occupava della ottimizzazione di prodotti e processi.

Io ho cercato un angolino tutto mio. Ho deciso di dedicarmi a ciò che restava a fine produzione e di capire come sfruttarlo. All’epoca eravamo in pochi, oggi buona parte del mondo accademico si occupa a vario titolo dei sottoprodotti. Ho partecipato ad un importante progetto europeo volto a trasformare i sottoprodotti in materie prime per innovativi materiali di confezionamento. Sottoprodotti e packaging sono temi di grande attualità, con ancora tanti problemi da risolvere e molto da scoprire. Per fortuna, diversi finanziamenti ci permettono di continuare nella ricerca.

A cosa sta lavorando in questo periodo?

Mi sto occupando di alternative alle proteine di origine animale. Il mio gruppo di ricerca è impegnato nella messa a punto di processi produttivi, caratterizzazione delle proprietà tecnologiche dei prodotti da questi ricavati e del loro impiego in diverse matrici alimentari (sostituti della carne, prodotti da forno, creme e salse).

L’obiettivo, in collaborazione con diverse aziende interessate ai risultati della ricerca, è migliorare la sostenibilità dei processi di produzione delle proteine vegetali e implementarne l’impiego negli alimenti. Collegato a questo tema, stiamo dando grande spazio alla reologia per lo sviluppo e caratterizzazione di nuovi ingredienti e prodotti. Ad esempio, lavoriamo su processi di strutturazione di oli vegetali per l’ottenimento di grassi solidi o semisolidi di elevato profilo nutrizionale.

Come si arriva a sviluppare e consolidare collaborazioni di ricerca a lungo termine e di reciproca utilità per Università ed aziende interessate a produrre per il mercato nazionale ed estero?

Sicuramente non stando seduti in ufficio a scrivere delle e-mail! Durante il mio dottorato ho letteralmente esasperato il mio professore con continue richieste di lavorare in un laboratorio all’estero per qualche mese. Una delle poche cose che rimpiango è aver cominciato a viaggiare solo dopo la laurea e non aver trascorso più tempo in una struttura oltre confine. Alcune delle mie attuali collaborazioni di ricerca derivano da contatti e amicizie nate durante queste trasferte di lavoro più di 20 anni fa.

Bisogna muoversi, stringere delle mani, fare quattro chiacchiere a tavola. Le relazioni internazionali devono essere coltivate ed è più facile sviluppare e consolidare collaborazioni con persone con cui si va d’accordo anche oltre la sfera professionale. Un’altra strategia per allargare la propria rete di contatti è inviare i propri collaboratori all’estero per periodi di ricerca o accogliere studenti stranieri nei propri laboratori. Per un ricercatore universitario la dimensione internazionale è importantissima anche in ambito didattico.

È utile realizzare percorsi di laurea con doppio titolo tra Italia e altri Paesi, e incentivare i nostri studenti a intraprendere esperienze di mobilità, preziosi per la propria crescita umana e professionale. A mio parere la dimensione internazionale è un elemento irrinunciabile per l’Università e per la ricerca, ma è anche qualcosa che mi è sempre appartenuto, è la curiosità e il piacere di conoscere persone di Paesi e culture diversi, è un arricchimento che vale la pena vivere.

Come immagina il futuro della Ricerca?

Vorrei fosse sempre più inclusiva, senza barriere culturali e geografiche, animata da ricercatori che scelgono questo lavoro per passione e lo vivono con il giusto spirito di condivisione di conoscenze e risultati, riconoscendo e ammettendo i propri limiti e i successi degli altri. Vorrei una ricerca guidata da leader che, seguendo le domande di questa intervista, sanno individuare e coltivare i talenti nonché premiare i meriti.

Vorrei sempre più aziende disponibili non solo a condividere con la ricerca le proprie esigenze e le proprie criticità, ma anche interessate ad assumere collaboratori che hanno dedicato alcuni anni alla ricerca prima di passare all’industria. Spesso non sono presi in considerazione perché considerati troppo titolati.

Nel mondo reale vedo una ricerca che purtroppo dovrà fare i conti con la crescente carenza di giovani disposti a svolgere questa attività, un po’ per motivazioni economiche (per le quali non sono certo da biasimare), un po’ per paura di future difficoltà nell’essere considerati dalle aziende. Mi aspetto una ricerca sempre più interdisciplinare basata su gruppi di lavoro eterogenei atti a condividere conoscenze e strumentazioni analitiche sempre più sofisticate e costose.