Food Safety, batteri ingegnerizzati come sensori per il controllo

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I batteri ingegnerizzati e i biosensori cellulari rappresentano strumenti promettenti per rendere la food safety più rapida, precisa e sostenibile, riducendo sprechi e dipendenza da metodi analitici complessi.

La sicurezza alimentare è una sfida cruciale: secondo FAO e OMS, ogni anno milioni di persone sono colpite da malattie di origine alimentare, con perdite economiche globali di centinaia di miliardi di dollari. Le cause principali sono contaminazioni da patogeni, tossine, metalli pesanti e deterioramento microbico, cui si aggiungono gli sprechi dovuti a prodotti eliminati benché ancora sicuri.

La complessità della filiera alimentare richiede sistemi di monitoraggio rapidi, economici e affidabili. I metodi tradizionali, pur standardizzati, sono lenti, costosi e dipendono da laboratori attrezzati. In questo scenario, i biosensori microbici, e in particolare i whole-cell biosensors (WCB) basati su cellule ingegnerizzate come E. coli e B. subtilis, offrono nuove prospettive per rilevare contaminanti e indicatori di deterioramento in modo rapido, sensibile e a basso costo.

Metodi tradizionali di controllo della food safety

Il controllo microbiologico si basa storicamente sulla conta delle colonie (CFU), che consente di stimare la carica batterica in un campione. Sebbene considerato metodo gold standard, richiede tempi lunghi (24-72 ore) e non rileva cellule vitali, ma non coltivabili. Per migliorare la sensibilità e rapidità, si impiegano tecniche molecolari come PCR e qPCR, che permettono di rilevare specifiche sequenze di DNA in poche ore, ma non distinguono DNA da cellule morte e necessitano di apparecchiature sofisticate.

Parallelamente, i saggi immunologici come ELISA forniscono alta specificità, ad esempio per la ricerca di tossine batteriche o micotossine, ma richiedono anticorpi e reagenti costosi. Sul fronte chimico-fisico, la cromatografia liquida ad alte prestazioni (HPLC) e la gascromatografia accoppiata a spettrometria di massa (GC-MS) rappresentano metodi standard per pesticidi, micotossine e residui farmaceutici.

Per i metalli pesanti, l’analisi di riferimento è la spettrometria di massa a plasma accoppiato induttivamente (ICP-MS), che consente limiti di rilevazione molto bassi ma richiede campioni mineralizzati e laboratori specializzati. Nel caso del metilmercurio, ad esempio, le procedure convenzionali implicano digestione acida, derivatizzazione e separazione cromatografica, operazioni lente e potenzialmente inquinanti. In sintesi, i metodi tradizionali garantiscono sensibilità e affidabilità, ma sono penalizzati da tempi lunghi, costi elevati e scarsa applicabilità al monitoraggio in situ lungo la filiera.

Biosensori microbici e Whole-Cell Biosensors

Un biosensore microbico è un sistema in cui un microrganismo vivo interagisce con un analita, e un trasduttore converte questa interazione in un segnale misurabile. I microrganismi offrono: capacità metaboliche ampie, auto-riproduzione e possibilità di ingegnerizzazione genetica.

Immobilizzazione dei microrganismi

Un aspetto cruciale nella costruzione di un biosensore microbico è rappresentato dall’immobilizzazione delle cellule sul trasduttore. Questo passaggio è necessario per garantire un contatto stabile e continuo tra il microrganismo e la superficie sensibile del dispositivo, mantenendo al tempo stesso la vitalità delle cellule o almeno la loro attività metabolica. Le strategie di immobilizzazione si dividono principalmente in due grandi categorie: metodi chimici e metodi fisici.

Nei metodi chimici, un approccio comune è il legame covalente. In questo caso, i gruppi funzionali presenti sulla parete cellulare, come ammine, carbossili o solfuri, vengono fatti reagire con superfici opportunamente trattate, ad esempio con epossidi. Questa modalità assicura un’ottima stabilità meccanica, ma le condizioni chimiche richieste possono risultare aggressive e compromettere la vitalità delle cellule. Un’altra strategia chimica è il cross-linking, ovvero la reticolazione delle cellule con il supporto tramite agenti come la glutaraldeide.

Questa tecnica viene spesso impiegata quando non è necessaria la vitalità completa dei microrganismi, ma è sufficiente mantenere attiva la loro componente enzimatica interna. I metodi fisici, invece, si basano su interazioni meno invasive. L’adsorbimento sfrutta legami deboli, di natura ionica o idrofobica, per fissare le cellule su superfici porose come vetro, allumina o carbonio. È un metodo semplice e non tossico, ma soffre di scarsa stabilità a lungo termine, perché le cellule possono desorbire facilmente. Più sofisticata è l’incorporazione o intrappolamento, che consiste nell’inclusione delle cellule in matrici di gel (alginato, carragenina, agarosio, poliacrilammide) o in membrane semipermeabili.

Questo approccio ha il vantaggio di preservare la vitalità cellulare e permettere la diffusione dei substrati verso i microrganismi, anche se può ridurre la sensibilità complessiva a causa della limitata diffusione delle molecole all’interno della matrice. In generale, la scelta del metodo più adatto dipende fortemente dal tipo di analita da rilevare e dal contesto applicativo. Nei biosensori ambientali, dove è richiesta una particolare robustezza, si privilegiano tecniche come il cross-linking. Al contrario, nei biosensori destinati al settore alimentare, l’obiettivo principale è preservare la vitalità dei microrganismi, e quindi si prediligono metodi basati su matrici biocompatibili, come l’alginato o il chitosano.

Puoi leggere il seguito dell’articolo sul numero di Macchine Alimentari di Novembre.

 

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