Ricerca e industria, una sinergia sempre più indispensabile

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Indipendentemente dalle dimensioni aziendali, il quadro che emerge nel comparto agro-alimentare è di una rande apertura nei confronti dell’Università e della Ricerca sia ella fase di processo che in quella del confezionamento e imballaggio.

Vincenzo Gerbi, dell’Università degli Studi di Torino e presidente della Società italiana di Scienze e Tecnologie Alimentari.

Come avvicinare il mondo della Ricerca e quello dell’Industria per il processo alimentare? Vincenzo Gerbi, dell’Università degli Studi di Torino e presidente della Società italiana di Scienze e Tecnologie Alimentari, risponde: “La mia visione è quella di un docente che lavora nel campo agroalimentare e questo fa sì che, quando si parla in generale di Ricerca e Industria, ritengo sia necessario fare dei distinguo. Infatti se parliamo di ricerca industriale in settori come quello elettronico e/o metalmeccanico, le dimensioni aziendali fanno necessariamente la differenza; è infatti scontato che l’attività di ricerca più avanzata è propria delle imprese di una certa dimensione che quindi hanno riferimenti strutturalizzati da tempo con il Politecnico o altre istituzioni di ricerca che permettono di progettare insieme ricerche sia in campo applicativo che di base.

Per il settore agroalimentare, non necessariamente le dimensioni aziendali sono un elemento determinante per l’apertura nei confronti del mondo della ricerca, ma spesso è proprio l’imprenditore che fa la differenza con la sua sensibilità nei confronti della necessità di innovazione da una parte, e di sicurezza e razionalità della produzione dall’altra. Esiste poi, per quanto riguarda il nostro campo, una particolare sensibilità verso la naturalità dei processi di conservazione e di trasformazione degli alimenti che viene  troppo spesso semplificata e interpretata nel senso di naturalità uguale tradizione e negazione di ricerca e innovazione. Si tratta di un atteggiamento che anche i sostenitori di queste teorie riconoscono essere sbagliato, perché fare alimenti senza additivi, per esempio, è più difficile che farli con gli additivi. La necessità di conoscere e gestire il processo produttivo è molto più alta quando si utilizzano tecniche di minimo intervento tecnologico e di minimo intervento con additivi. Da un certo punto di vista, l’attenzione verso il naturale ha fatto aumentare le necessità di ricerca applicata nei processi di trasformazione alimentare”.  “Questa mia – prosegue Gerbi – è una premessa necessaria perché altrimenti diventerebbe arduo capire che il problema di temere l’influenza del dettato aziendale, è una questione molto più legata ai processi brevettuali del settore chimico-farmaceutico più di quanto non lo sia nel campo del processo alimentare. Nel nostro caso, le aziende che producono alimenti trasformati sono sostanzialmente a uno stadio di evoluzione molto diverso tra loro; si va da imprese familiari con un approccio tradizionale a basso livello di conoscenza, ad altre che invece registrano altissimi livelli di tecnologia. Solo in alcun settori si assiste anche a un ritorno di investimenti da parte di imprenditori che lasciano altri settori, soprattutto da terziario, che affrontano il settore con uno spirito decisamente nuovo, e quindi hanno rapporto di buona confidenza con il mondo della Ricerca. Il nostro è quindi un panorama estremamente variegato”. Indipendentemente quindi dalle dimensioni aziendali il quadro che emerge è quello di una grande apertura nei confronti dell’università e della ricerca soprattutto per quanto attiene i prodotti naturali/tradizionali.