Biogas3, il progetto ad hoc per le aziende agroalimentari

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img_20160225_114901Biogas3 è finanziato dal programma europeo IEE (Intelligent Energy for Europe) e finalizzato a promuovere l’impiego di impianti di biogas su piccola scala (<100kW) tra le aziende agroalimentari di vari Paesi.

Simone Montonati

La tecnologia di produzione di biogas tramite microrganismi anaerobici non è certo una novità. Si calcola che in Europa esistano già oltre 14mila impianti di produzione distribuiti in vari settori, come il trattamento dei rifiuti urbani e la gestione delle acque reflue. In ambito agricolo, secondo i dati del Consorzio Italiano Biogas, in Italia si contano 1300 impianti destinati a diventare 2300 entro il 2030.

Il nostro Paese è il terzo produttore al mondo dopo Germania e Cina, ma la maggior parte degli impianti di biogas installati è destinato a uso agro-zootecnico, con disegni semplici che non permettono l’ingresso di rifiuti alimentari. Marianna Faraldi di Tecnoalimenti, è stata referente italiano, insieme all’Università di Torino, per il progetto internazionale Biogas3, finanziato dal programma europeo IEE (Intelligent Energy for Europe) e finalizzato a promuovere l’impiego di impianti di biogas su piccola scala (<100kW) tra le aziende agroalimentari di vari Paesi.

Come ha avuto modo di spiegare: “Un impianto a biogas, seppur di piccole dimensioni, è in grado di rappresentare un sistema fattibile e sostenibile per un’azienda agroalimentare di piccole dimensioni”. Qualsiasi materiale organico, infatti, può essere convertito in biogas e utilizzato per la generazione di calore ed energia e, sebbene la contrazione dei costi energetici abbia creato al momento una situazione di stallo, in proiezione l’integrazione di piccoli impianti di biogas potrà offrire numerosi vantaggi: riduzione dei costi energetici, gestione dei rifiuti meno onerosa e contenimento delle emissioni di gas serra.

Ora che il progetto Biogas è terminato, abbiamo chiesto a Faraldi di illustrarci quali potenzialità e limiti sono emersi per questa tecnologia e quali strumenti hanno messo a punto per supportare le aziende nella sua utilizzazione.

Dott.ssa Faraldi, quali sono i settori agroalimentari che meglio si prestano all’introduzione di impianti di biogas? Dalla nostra esperienza, ogni settore ha dei punti di forza, associati a punti di debolezza. E’ il caso dei macelli, i cui scarti – sangue, contenuto ruminale e grassi – ben si presterebbero ad alimentare un impianto a biogas (il grasso è un substrato interessante), ma si trovano poi a scontrarsi con il mancato rilascio delle autorizzazioni di costruzione da parte della provincia.

Gli attori a valle della filiera carnea hanno pochi scarti per giustificare un impianto a biogas. I caseifici devono fare i conti con il siero di latte, una matrice potenzialmente interessante in termini di resa in biogas, ma allo stesso tempo un problema per il grande quantitativo di digestato liquido che dovrà successivamente essere sparso nei campi, come fertilizzante naturale, con tutte le limitazioni del caso.

I molini, anche con pochi scarti riuscirebbero ad avere rese energetiche interessanti, ma lo scarto rappresentato dalla crusca di grano è una commodity agricola che si vende secondo l’andamento del mercato. Il settore oleario è un settore dibattuto. Alcuni lo ritengono poco idoneo, eppure recenti risultati di ricerca hanno evidenziato che la sansa è potenzialmente una matrice molto interessante per la digestione anaerobica, laddove però esista un accordo tra più produttori in grado di garantire quantitativi sufficienti.

Per quanto concerne il settore dei vegetali, il problema è legato in parte alla stagionalità e in parte alla quantità di scarti che non sempre giustificano un investimento di questo tipo. Questa esperienza ha sicuramente messo in evidenza l’importanza di trovare dei modelli di collaborazione virtuosi tra diversi produttori vicini in modo da alimentare il più possibile il fermentatore con diverse fonti: ad esempio, laddove i sottoprodotti di origine agroalimentare non siano sufficienti, si può pensare di alimentare il digestore anche con effluenti zootecnici, piuttosto che con altre tipologie di scarti.

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Quali sono i parametri da valutare per verificare se un impianto di biogas è sostenibile? In funzione della nostra esperienza diretta, un investimento in tal senso regge da un punto di vista economico se vi sono le seguenti caratteristiche:

  • scarto a costo zero per l’impresa;
  • scarto che sia realmente tale, e che non rappresenti quindi un coprodotto ricercato sul mercato per altri usi;
  • disponibilità di campi agricoli a costo zero e comunque in prossimità dell’azienda, al fine di gestire tutti gli aspetti correlati allo spandimento del digestato e ridurne al minimo i costi;
  • disponibilità di quantitativi di scarto con una elevata resa in biogas, abbastanza umidi, ma non all’eccesso, per non creare quantitativi eccessivi di digestato da dover gestire.

Per questo progetto sono stati realizzati diversi strumenti di promozione (manuale, corsi, un tool online): quale è risultato a suo parere più utile? Il manuale è risultato senz’altro gradito alle imprese, in quanto permette di avere un quadro molto schematico e riassuntivo del settore del biogas (di cosa si tratta, quali substrati meglio si prestano, le tecnologie disponibili e i relativi provider a cui rivolgersi in Italia).

Altro risultato gradito per un primo orientamento è il software. E’ uno strumento anch’esso utile (tra l’altro rimarrà disponibile sul sito http://www.biogas3.eu/it/ sino a febbraio 2018), per una prima valutazione indicativa. Nel caso in cui il software dimostri esito conveniente della prima valutazione è utile consultare un esperto del settore o comunque un provider per i dettagli tecnici necessari a prendere decisioni di investimento.

Dopo questa esperienza, quale consiglio si sentirebbe di dare ad un’azienda che volesse avvicinarsi alla produzione di biogas? Gli impianti >100 kW, ma sotto i 300 kW, risultano quelli con maggior convenienza economica (con tariffa incentivante di 0.236€/kWh, contro 0.178€/kWh per impianti di dimensioni <1MWh), ma è necessaria l’iscrizione ai Registri. Oggi come oggi si è in attesa di un decreto per l’apertura teorica di 2 Registri nel 2016, ma sino a quando tali Registri non usciranno non vi è autorizzazione all’esercizio per cui il settore (in questa classe di potenza) è bloccato.

Per ammortizzare tutta una serie di costi obbligati, di norma si consiglia un impianto di circa 100 kW, ma non tutte le imprese hanno scarti sufficienti per alimentare un tale impianto. Il vantaggio è che tali impianti hanno “accesso diretto” agli incentivi e non hanno quindi l’obbligo di iscrizione al Registro. Impianti di dimensioni troppo piccole (ad esempio 30 KW) non risultano realmente fattibili, né sotto il profilo tecnologico né in termini di convenienza.

Di norma gli impianti hanno dimensioni di almeno 60 kW, ma anch’essi risultano poco convenienti in quanto abbiamo appurato che il costo dell’investimento non è realmente in proporzione alla potenza (ad esempio 450-600mila euro per un impianto di 66 kW, contro i 600-800mila euro per un impianto di 100 kW) e i costi di gestione, manutenzione rimangono più o meno costi fissi. Un consiglio generale, che nasce dalla nostra esperienza diretta, è senz’altro quello di affidarsi a consulenti e/o consorzi che operano nel settore delle agro-energie.

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Cosa pensa si possa fare ancora per diffondere l’utilizzo di biogas in Italia? Se ad oggi il prezzo del petrolio permane basso, rendendolo ancora competitivo ai fini energetici immediati, è fondamentale guardare avanti e creare sin da ora le premesse per raccogliere la sfida negli anni a venire, quando il prezzo al barile sarà destinato a salire anche in funzione di una ridotta disponibilità.

E’ fondamentale quindi incentivare oggi l’investimento in energie alternative, supportando le imprese in questa delicata scelta. Partendo da tale presupposto, già nel corso del progetto abbiamo avviato una campagna di sensibilizzazione dei policy-maker, puntualizzando al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dello Sviluppo Economico quelli che, a nostro parere, rappresentano gli ostacoli principali ad uno sviluppo concreto del settore del biogas in Italia. Mi riferisco a tre aspetti in particolare:

  • Rivisitazione delle tariffe incentivanti, affinché favoriscano la sostenibilità economica e quindi la fattibilità dell’investimento. Siamo soddisfatti di verificare che la revisione della normativa è in continuo divenire grazie al recepimento di pareri dall’esterno, e di come le ultime “bozze” del Decreto per gli incentivi alla produzione di energia da fonti rinnovabili siano risultate migliorative, rispetto alle prime proposte, in termini di tariffe per impianti a biogas con potenza inferiore a 300kW. Auspichiamo che queste vengano confermate, se non ulteriormente incrementate ove possibile.
  • Abbattimento del disequilibrio geografico legato allo sviluppo attuale del settore biogas a livello del Paese. Gli impianti sono infatti principalmente dislocati a livello lombardo, piemontese, emiliano e veneto, mentre si contano solo poche decine di impianti nelle altre Regioni italiane; eppure l’area del Mezzogiorno – fortemente vocata alle produzioni agricole tipiche del territorio nazionale – creerebbe ulteriori e ragguardevoli opportunità di sviluppo. Molte le imprese agroalimentari del Centro-Sud Italia che mostrano interesse, ma altrettanto basso il livello di promozione sul territorio da parte delle istituzioni locali. Questo lascia intravedere quanto sia necessario il supporto regionale e locale alle politiche di sviluppo in questo settore, guidato dal governo.
  • Messa a punto di procedure semplificate e uniformate a livello nazionale per il rilascio di tutte le autorizzazioni e i nulla osta necessari al fine di costruire ed esercire tali impianti, ovviamente sempre nel massimo rispetto dell’ambiente circostante. Mentre alcune Regioni sono maggiormente propense a tale rilascio (e.g. Lombardia, Piemonte) ed hanno messo a punto linee guida regionali sulle procedure, altre sono ad oggi molto meno sensibilizzate sull’argomento. Anche la tipologia di produzione industriale fa la differenza, per cui alcune tipologie industriali hanno grosse limitazioni autorizzative dalle provincie rispetto ad altre (e.g. mattatoi/macelli, rispetto a caseifici).