Dichiarazione di origine
“Sull’origine – precisa Dongo – vi sono diverse e significative novità delle quali non abbiamo ancora precisa contezza. Innanzi tutto è ribadita la definizione di origine, che peraltro deriva dal Codice doganale comune (reg. CE 450/08, art. 38), a sua volta ispirata all’accordo istitutivo dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO, art 24). Si continua perciò a considerare un prodotto realizzato in più paesi come originario del paese in cui esso ha subito la sua ultima trasformazione sostanziale. L’indicazione dell’origine del prodotto rimane in linea di massima facoltativa a meno che la sua omissione – anche in ragione di elementi grafici, simboli e diciture in etichetta e pubblicità – possa indurre in confusione il consumatore. È il classico esempio dell’apposizione di una bandierina tricolore su un prodotto che non è made in Italy, da cui scaturisce l’obbligo di specificare l’origine. Ma al di là di questa generica facoltatività, il nuovo regolamento introduce una serie di obblighi. Primo tra tutti il dovere di indicare l’origine delle carni fresche, refrigerate o congelate delle specie suina, ovina, caprina e avicole; mancano ancora indicazioni di questo tipo per quanto attiene le carni equine, oggetto di un grande scandalo in Europa nel 2013, come pure mancano le carni di animali come lepri, conigli, quaglie, struzzi, etc. Le modalità di indicazione dell’origine sono specificate nel regolamento (CE) n. 1337/2013, della Commissione, che è tuttavia stato oggetto di varie critiche, da parte del Parlamento europeo. Il meccanismo stabilito riprende quello a suo tempo stabilito per le carni bovine (regolamenti CE 1760, 1825/2000). Un’ulteriore novità, di potenziale impatto su una gran varietà di prodotti, riguarda l’obbligo di indicare la diversa provenienza dell’ingrediente primario, quello cioè che rappresenta più del 50% nella formula del prodotto, laddove essa differisca dall’origine del prodotto e quest’ultima sia stata indicata in etichetta. Un esempio potrebbe essere quello di un prodotto lattiero-caseario indicato come made in Italy bensì realizzato a partire dal latte di diversa provenienza. Un altro ipotetico esempio potrebbe esser quello della pasta anche se, a ben vedere, l’ingrediente primario della pasta non è il grano ma la semola che viene generalmente realizzata in Italia, ove l’industria molitoria è tradizionale e fiorente. In aggiunta, la Commissione ha ricevuto mandato di eseguire una serie di valutazioni di impatto, atte a considerare gli interessi e i punti di vista delle diverse parti sociali interessate, vale a dire dei vari comparti: dalla fattoria alla forchetta, dalla produzione agricola primaria alla distribuzione, all’importazione, trasformazione e distribuzione. E di valutare la fattibilità tecnica dell’eventuale estensione dell’obbligo di indicare l’origine a una serie di prodotti. I prodotti mono-ingrediente e quelli che abbiano un ingrediente primario significativo (più del 50% della formula). Dovranno poi venire eseguiti studi in merito all’opportunità di estendere l’indicazione obbligatoria della provenienza del latte venduto tal quale e di quello impiegato nella preparazione di altri prodotti lattiero-caseari. E’ infine prevista una valutazione sull’indicazione della provenienza della carne quale ingrediente di altri prodotti. A questo riguardo, la Commissione ha depositato a fine dicembre una relazione che ha tuttavia raccolto le vivaci critiche del Parlamento europeo. Poiché nel dare atto dell’interesse dei consumatori a conoscere la provenienza della carne contenuta in una lasagna -pur certamente influenzata dal recente scandalo delle carni equine – si è annotata l’indisponibilità degli stessi ad affrontare i maggiori costi che questa indicazione potrebbe eventualmente comportare. Il Parlamento europeo, come ho detto, si è mostrato critico, e ora vedremo quali saranno le decisioni. E’ certo che la Commissione europea nel presentare la valutazione, non ha presentato, come avrebbe potuto, una proposta di regolamento che molti eurodeputati attendevano. Per quanto riguarda le altre valutazioni di impatto, esse sono in via di elaborazione da parte dei contractor esterni, o consorzi temporanei che coinvolgono università come quella di Wageningen in Olanda. Potremo quindi avere le idee più chiare quando le valutazioni di impatto, eventualmente accompagnate da proposte regolative, verranno presentate al Parlamento e al Consiglio per un appropriato esame politico”.
Aggravio di costi per l’industria agroalimentare?
“Il Regolamento UE 1169/2011 per l’industria della trasformazione alimentare – precisa Domenico Stirparo, Avvocato, AIIPA – si concretizza nella ripetizione delle regole già esistenti, con qualche margine di ulteriore prescrizione: da un lato c’è un miglioramento in termini di chiarezza, dall’altro un aggravio delle informazioni da aggiungere in etichetta. I rischi di aggravio dei costi per l’industria agroalimentare sono considerevoli dal momento che su alcune novità, specialmente quelle che sono di emanazione parlamentare, quindi per esempio l’indicazione di origine e tutto quello che gira intorno all’art. 26 del Regolamento, rappresentano una tematica che ci espone a dei costi molto alti. L’industria, ma da ultimo anche la Commissione europea stessa che, inizialmente, si è dovuta piegare al volere parlamentare, hanno constatato di volta in volta che l’introduzione di un obbligo simile, dovuto più che altro alle insistenze dei consumatori europei e di alcune rappresentanze delle imprese agricole, si potrebbe trasformare in una macchina che produce costi enormi senza fornire, in termini di informazioni al consumatore, dei risultati encomiabili. Quanto al fatto che le informazioni sull’origine dei prodotti alimentari, secondo alcune frange della rappresentanza agricola nazionale, non siano chiaramente espresse in etichetta e che di questo traggano vantaggio le grandi aziende agroalimentari, Stirparo obietta: “L’indicazione di origine non ha niente a che vedere con la tracciabilità e la trasparenza che riguardano la sicurezza dei consumatori, la certezza dei processi produttivi, la trasmissione delle informazioni che è in auge e viene rispettata da tutti gli operatori nazionali ed europei, e ne è testimonianza il fatto che abbiamo a livello europeo il miglior sistema di verifica igienico-sanitario del mondo, e che l’Italia ha il primato rispetto all’Europa”. Sul tema dell’indicazione in etichetta del soggetto responsabile delle informazioni, Stirparo osserva: “Anche in questo caso si tratta di una grande novità perché si chiarisce qual è il tema di comunicazione delle informazioni in etichetta e chi ne è il responsabile finale. Si tratta di un grande passo avanti perché si armonizza il discorso delle informazioni in etichettatura con quello delle informazioni di carattere igienico-sanitario; invece di confondere origine e tracciabilità, come fa la parte agricola, finalmente adesso si identifica lo stesso progetto di trasmigrazione delle informazioni sulla tracciabilità a tutte quante le informazioni di etichettura e, soprattutto, si dice finalmente dappertutto che chi mette la faccia sul prodotto, cioè chi vende il prodotto a proprio marchio, ne è responsabile. Fino ad oggi infatti siamo stati in un sistema confuso che consentiva di scaricare sui produttori la responsabilità dei prodotti a marca privata, che spesso rappresentano il core business di marchi della distribuzione organizzata, e rispetto ai quali, con le nuove regole non ci si potrà limitare a coglierne esclusivamente i benefici, ma anche gli oneri”. Prendiamo l’esempio di una pasta prodotta dal pastificio X che comunque produce anche con il proprio marchio, e che viene venduta con il marchio Y di una catena della GDO. “In questo caso – precisa Stirparo – quella pasta è stata prodotta da X su incarico di Y, e quindi l’azienda X produce in nome e per conto di Y (GDO) come se fosse uno stabilimento di Y; Y poi mette il proprio marchio. Ma chi ne guadagna profitto anche in termini di fidelizzazione del cliente e di prodotti in circolazione a proprio marchio, è Y (GDO) che è responsabile in tutto e per tutto delle informazioni al consumatore. Infatti l’azienda X presta soltanto lo stabilimento in cambio di un riconoscimento economico”. “Le tabelle nutrizionali – conclude Stirparo – rappresentano uno degli ambiti in cui il legislatore europeo si è espresso al peggio, almeno per quanto riguarda i meccanismi di comprensione per gli operatori. La regolamentazione della parte sul nutrizionale è assolutamente diabolica, al di là del fatto che manca ancora in gran parte l’attività della Commissione europea per implementare il Regolamento e costruire una disciplina completa anche su questo punto. Etichettatura d’origine e nutrizionale sono le tematiche che più di tutte risentono della scarsa capacità da parte delle istituzioni europee di pervenire a delle idee certe in maniera veloce ed efficace. L’etichettatura nutrizionale, a livello di obbligatorietà, sarà comunque operativa nel 2016”.
Nota
Per un riepilogo delle norme contenute nel regolamento (UE) 1169/2011 si segnala l’ebook ‘L’etichetta’, autore Dario Dongo, che è disponibile gratuitamente – meglio ancora, ricambiando l’omaggio con una sempre utile donazione a favore dei bimbi del Corno d’Africa cui il progetto editoriale è stato dedicato, attraverso i canali indicati in fase di download – su www.ilfattoalimentare.it