Giflex, imballaggi flessibili sicuri e leggeri

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Supermarket

Conservano bene, proteggono il cibo e ne facilitano il trasporto. Quello degli imballaggi flessibili è un mercato in controtendenza, in Italia, con un incremento sensibile dovuto all’esportazione.

Il sacchetto in poliaccoppiato per snack o patatine, la busta per i cereali, il sottovuoto per i formaggi o i salumi, l’incarto avvolgente delle tavolette di cioccolata, la busta del caffè in polvere, il monodose per salse e condimenti vari, lo squeezable apri/chiudi dei succhi di frutta o lo yogurt da bere: gli esempi dei contenitori possono continuare, e fanno tutti parte della categoria “imballaggi flessibili”. Comodi da movimentare e leggeri da trasportare, tutti questi imballi proteggono gli alimenti confezionati e possono essere stampati senza inficiare la qualità del cibo a contatto. In Italia vi sono i più importanti produttori di imballaggi flessibili stampati in rotocalco e in flessografia. Apprezzati in ambito internazionale, sono associati a Giflex, integrata nel sistema confindustriale tramite l’Associazione nazionale delle industrie grafiche, cartotecniche e trasformatrici, la quale aderisce alla FPE (Flexible Packaging Europe). Fondata nel 1985, “Giflex ha sempre lavorato per preparare le aziende a integrarsi nel mercato globale e migliorare la professionalità”, spiega il direttore, Italo Vailati. “Con il supporto del nostro comitato tecnico, oggi le aziende sono in grado di definire caratteristiche tecniche e qualità del prodotto con assoluta sicurezza, realizzando imballaggi con la giusta combinazione tra materiali e qualità della stampa. Il nostro impegno è continuo, perché se cresce la cultura del settore cresce anche il valore del prodotto”.

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Italo Vailati

Alimentare per l’80%
L’imballaggio flessibile da bobina o accoppiato (cellulosa, plastica, alluminio) è progettato in base alle caratteristiche del cibo da confezionare e alla vita a scaffale che deve garantire. Ma qualunque sia il cibo o il materiale, il comune denominatore è la protezione del contenuto. Pane, pasta, dolci, carne, pesce, latticini, bevande, formaggi, salse, condimenti, piatti pronti: tutti hanno bisogno di un imballaggio che li conservi, li preservi dagli agenti esterni e informi il consumatore. L’imballaggio è fondamentale in termini di sicurezza alimentare e rapporto con il consumatore, soprattutto se flessibile, perché comunica la qualità attraverso l’impatto visivo. Imballaggi dal design innovativo, cicli di prodotti sempre più brevi e una molteplicità di varianti pongono i produttori dell’industria alimentare davanti a continue sfide, “da affrontare e superare assieme per rimanere competitivi”, dichiara l’ing. Vailati. “Il comparto alimentare assorbe l’80% circa della produzione di imballaggi flessibili, resta quindi il principale sbocco. Ma anche se in Italia il mercato è maturo, con l’export intravediamo grandi potenzialità di sviluppo, soprattutto grazie a fattori propulsivi come la crescita di alimenti pre-pesati e preconfezionati, piatti pronti in confezioni singole confezionati in atmosfera protetta, l’incremento dei surgelati e il progressivo sviluppo dei prodotti di IV gamma. L’unico comparto in leggero affanno potrebbe essere quello del caffè, a causa della progressiva diffusione delle macchine automatiche e delle cialde, che hanno rubato spazio alle confezioni classiche. Ma tra gli imballaggi flessibili comprendono anche le cialde, quindi direi che il mercato è bilanciato”.

Trend in evoluzione
Tra i pochi settori di mercato in progressivo sviluppo, quello degli imballaggi flessibili ha fatto registrare un andamento evolutivo, negli ultimi anni. A parte il calo del 2009, anno d’inizio della crisi, è un dato in netta controtendenza, in Italia. Rispetto all’industria manifatturiera, ma anche al totale degli imballaggi, il fatturato di quelli flessibili è rimasto costantemente in salita (fonte Prometeia 2014) soprattutto grazie all’export. “Le nostre associate producono Made in Italy di qualità, destinato per l’80% circa al settore food”, evidenzia l’ing. Vailati. “Hanno visto crescere il loro fatturato esportando oltre il 60% della produzione verso Usa, paesi europei extraUE e Africa, cioè mercati dove la qualità al giusto prezzo è ancora un valore. La conseguenza è un aumento degli addetti dell’1,7% dal 2011. Invece sul mercato interno vi è purtroppo un eccesso di offerta. I consumi nel 2013 sono scesi dell’1,3%, con conseguente battaglia del prezzo che può mettere seriamente a rischio la qualità e la sicurezza”. Il fatturato 2013 del settore, che impiega circa 8200 addetti, è di oltre 2,5 mld di euro. Rispetto al 2012 la crescita è stata del 2,9% (+18% rispetto al 2008), con una crescita media del 3,2% nel periodo 2010/2013. “Dopo la fase negativa del 2008/2009, dal 2010 le nostre aziende sono in ripresa”, ribadisce Vailati. “E se lo sviluppo del flessibile prima era essenzialmente favorito dal calo di altre tipologie di imballaggio, negli ultimi anni la crescita è guidata dalle abitudini alimentari dei nuovi consumatori e da una società dove i single e i piccoli nuclei famigliari sono in aumento”.

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Leggero e riutilizzabile
“Le confezioni in imballaggio flessibile rappresentano il 40% dei prodotti alimentari confezionati, ma in termini di peso sono solo il 6%”, evidenzia Vailati. “Si tratta dell’imballaggio che pesa meno di tutti, che sia film da bobina, metallizzato o poliaccoppiato. Vanno per la maggiore gli accoppiamenti con diverse tipologie di polimeri o l’alluminio, o ancora film barriera che permettono di ridurre lo spessore dell’involucro senza indebolirne la resistenza”. Il peso ridotto porta a vantaggi molto consistenti, tra cui riduzione dei volumi, risparmio energetico e facilità/ottimizzazione dei trasporti. Inoltre contribuisce a ridurre la brutta abitudine di buttare cibo ancora buono. Perché se la confezione è considerata parte del problema ambientale legato agli scarti di cibo, l’imballaggio flessibile può essere parte della soluzione. Unico neo è il riciclaggio, per esempio rispetto a carta o vetro. Però, “malgrado vi sia ancora molta strada da percorrere per migliorare il fine vita dell’imballaggio flessibile, sono innegabili le sue potenzialità ai fini della termovalorizzazione”, continua Vailati. “Nei paesi scandinavi, per esempio, gli imballaggi flessibili sono usati per generare calore, riscaldare acqua e produrre energia elettrica, rendendo autonome intere città”. In Italia vi è molta paura circa le emissioni causate dagli impianti di termovalorizzazione, e nessuno li vuole nei pressi di casa propria. Ma se gestiti in modo trasparente e competente, con una corretta raccolta differenziata, i termovalorizzatori possono sorgere anche nei pressi delle grandi città.

Grandi margini di mercato
Mercati ambiti sono Cina e Africa, oltre ai paesi europei extraUE dove ancora vi sono grandi margini di penetrazione, per le aziende italiane che vogliono esportare. “Nel primo caso, nonostante un rallentamento iniziale della crescita causato da nuove riforme, ci aspettiamo consumi in forte salita”, rivela Vailati. “Il settore alimentare cinese è in fase di consolidamento, per cui la competizione per acquisire quote di mercato è elevata. Le aziende italiane non si devono lasciare scappare questa occasione, e noi come Giflex forniamo tutto il supporto necessario agli operatori dell’imballaggio flessibile che ci danno fiducia associandosi”. Il continente africano, malgrado le numerose zone di estrema povertà, rappresenta un’immensa piazza di occasioni. “Siamo di fronte a una nuova frontiera, con sei paesi che hanno fatto registrare la maggiore crescita economica al mondo (fonte The Economist). “Un esempio emblematico è il Ghana, paese piccolo ma democratico che ha appena trovato il petrolio e visto crescere il suo PIL del 20% circa”, prosegue Vailati. “Secondo le stime FMI, la crescita del PIL africano sarà del 5,4% nel 2014. Un dato che può apparire modesto, ma che diventa molto rilevante se paragonato alla crisi del mondo occidentale e alla recessione italiana. Brasile, Cina, India e Russia hanno già investito molto nel continente, i cui consumi subiranno un’impennata del 62%, secondo uno studio Ernst & Young. Le industrie italiane non devono stare a guardare”.