Dichiarazione d’origine in etichetta

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foto Luigi Di Battista 161
Amedeo De Franceschi

Limiti del Regolamento 1169/2011
Nel merito, Amedeo De Franceschi, Direttore della Divisione di Sicurezza agroalimentare e ambientale del Corpo forestale dello Stato, specifica: “Almeno abbiamo il bicchiere mezzo pieno perché c’è un regolamento dal 2011 che, soprattutto per i paesi mediterranei, Italia in primis, cambia almeno in parte alcune disposizioni per quanto riguarda l’origine dei prodotti agroalimentari. Origine da non confondere con provenienza. Va osservato infatti che anche tutto il discorso giurisprudenziale/dottrinale sull’origine e la provenienza è molto complesso. Ma perché ho parlato di bicchiere mezzo pieno? Perché si incomincia a parlare di un’etichettatura più trasparente per il consumatore europeo. I lati positivi sono, per esempio per quanto riguarda le carni ovine, suine, caprine, che dal 1° aprile 2015 ci sarà l’obbligo in etichettatura dell’origine, cioè dove sono nate, allevate, etc.  Esiste tutta una serie test e sperimentazioni per quanto riguarda il comparto lattiero caseario per il quale il regolamento prevede di darsi qualche anno di tempo per verificare se davvero mettere in etichetta l’origine del prodotto lattiero caseario può rappresentare un qualcosa che distorce il mercato o invece lo normalizza e/o lo legalizza. In questo settore infatti c’è bisogno di trasparenza in quanto, al momento, non c’è un vincolo per l’indicazione dell’origine del latte. Per esempio, per il latte UHT prodotto nel territorio europeo non c’è l’obbligo di dichiarare l’origine/provenienza sulle confezioni, in contrasto con quanto, nel corso degli ultimi anni, è diventato molto importante per i consumatori che sono sempre più attenti all’origine e alla qualità degli alimenti. Questo comporta che nel comparto lattiero caseario, a parte i formaggi a denominazione d’origine protetta, un formaggio generico come potrebbe essere la mozzarella, non ha l’obbligo di indicare la provenienza del latte”.  “Tornando al Regolamento – prosegue De Franceschi – per quanto riguarda la parte attuativa è partita una discussione sulla necessità di formalizzare il mercato; bisogna infatti tener presente che siamo partiti venti anni fa, quando l’indicazione d’origine in etichetta rappresentava una distorsione del mercato perché poteva favorire o meno dei paesi a danno di altri. Questo vale per gli anni ’90 in cui imperava il mantra della libera circolazione delle merci. Successivamente sono nate le DOP con il primo regolamento del 1992, e si è trattato di veri e propri regolamenti come forma cautelare nell’ambito della libera circolazione delle merci ma anche per mantenere demograficamente attivo il territorio rurale. Successivamente la BSE ha sconvolto le regole nel senso che ci si è resi conto che tracciare l’alimento e la filiera era fondamentale per preservarci sotto il profilo della sicurezza alimentare. Si faceva un gran parlare di sicurezza alimentare una decina di anni fa (i primi regolamenti risalgono al 2004) che era diventa il tema principale tanto che, l’indicazione d’origine in etichetta, ha continuato a soffrire perché l’importante era (ed è) che il prodotto fosse/sia sicuro per la salute, non importa da dove venga, disponendo comunque degli strumenti per tracciarlo”.

food ingredients label

Differenze tra Nord e Sud Europa
Dopo aver ricordato il tentativo italiano di tracciare anche la carne di pollo in seguito all’epidemia di influenza aviaria (H5N1), De Franceschi osserva: “C’è un’Europa del Nord e una del Sud e quest’ultima solo negli ultimi anni si sta riprendendo quel peso politico particolarmente legato alla biodiversità agroalimentare, e questo perché il passaggio della varie crisi alimentari ha dato voce al pacchetto igiene a scapito di un altro aspetto non meno importante. E’ vero che l’Europa si è organizzata con un’Agenzia per la sicurezza alimentare (EFSA) e con tutta una serie di accorgimenti che funzionano ottimamente dal punto di vista del controllo e della sicurezza, ma le persone incominciano però a dubitare del cibo che mangiano, a chiedersi da dove viene e si riavvicinano al cibo come cultura, per una necessità eco-compatibile, collegata all’ambiente e all’agricoltura biologica. Si è quindi creato un fenomeno culturale che vede prodotti di serie A e prodotti di serie B. I prodotti di serie A sono le DOP, le IGP e i prodotti da agricoltura biologica perché prevedono una certificazione del prodotto se li si vogliono etichettare come protetti. Dall’altra parte c’è tutta la gran massa di prodotti che non ha bisogno di nessun altra indicazione e l’unica indicazione che l’Europa chiede e impone è quello della tracciabilità (una persona, lo stabilimento e il distributore) in modo che, se succede qualcosa sotto il profilo della sicurezza, si possa individuare il responsabile. In Italia le norme sono più stringenti rispetto al resto d’Europa perché è prevista la citazione anche della sede dello stabilimento in cui è prodotto l’alimento. Il regolamento 1169/2011 si è posto dei tempi di verifica, di sperimentazione e di audit in merito a quello che succederà, a distanza di tre anni, per verificare se l’introduzione dell’origine in etichetta ha potuto in qualche modo influenzare e modificare il mercato. E’ la famosa battaglia che negli ultimi anni ha portato a parlare di Italian sounding extra europeo ma, anche all’interno del nostro territorio, di prodotti che imitano l’italianità. Nasce il fenomeno della contraffazione non più legato alla sicurezza alimentare ma alla reputazione del prodotto”.  “Da quando l’Italia, unico paese europeo, si è data nel 2004 (in recepimento dell’art.13) un sistema sanzionatorio per DOP e IGP che vieta l’usurpazione e l’evocazione di prodotti come per esempio il prosciutto di Parma o la mozzarella di bufala campana – sottolinea De Franceschi – quel sistema è afferente al Ministero dell’Agricoltura e, nello specifico, al Corpo Forestale dello Stato che si trova (è di quegli anni anche un’altra legge di riordino delle competenze), essendo comunque dislocato nei territori rurali e montani, a monitorare le produzioni agroalimentari legate al territorio il cui vincolo è geografico. Si tratta di monitorare circa 230-240 prodotti che richiedono, su basi regionali, percorsi di tutela e salvaguardia. Ci siamo inoltre accorti che questi prodotti hanno un valore aggiunto e che è molto facile “vestire” la confezione piuttosto che andare a contraffare, adulterare o sofisticare il prodotto da un punto di vista chimico. Per esempio un olio normalissimo, di scarsa qualità se lo etichetto come DOP faccio un guadagno dal 100 al 300%; non avendo poi i regolamenti ufficiali e le analisi la possibilità – anche se le cose stanno cambiando – di essere così determinanti ed efficaci, ecco che la frode è molto facile. Ed è quello che sta avvenendo nel settore dell’olio dove, nel 2009, è stata resa obbligatoria l’origine delle olive o comunque l’origine del luogo di produzione per la sola definizione di UE ed extra UE, perché molto olio arriva dalla Tunisia e tantissimo dalla Spagna. E’ evidente che il sistema agroindustriale è all’inseguimento di quei valori che i consumatori cercano nel prodotto alimentare, ma le informazioni in etichetta non sono sufficienti a garantire la genuinità. E’ anche vero che la crisi ha diminuito la possibilità di acquisto delle famiglie ma, se restiamo nel settore dell’olio, se un olio viene venduto a 3 euro significa che è vecchio di due o tre anni, mentre un olio venduto a 6 euro, anche se viene consumato con parsimonia e quindi dura nel tempo, è un olio con altre caratteristiche. E’ questa una consapevolezza che spesso manca al consumatore: per l’olio infatti, ed è un assurdo, vale solo la data dell’imbottigliamento e non quello della produzione come invece avviene per il vino. Da qui, forse, la scarsa consapevolezza del consumatore che, se conosce l’importanza della data di vendemmia del vino, nulla sa di quella di produzione dell’olio”.