In un recente studio effettuato da Benoit Chassaing e Andrew Gewirtz della Georgia State University pubblicato sulla rivista Nature, emergerebbe che l’aumento delle malattie infiammatorie intestinali e della sindrome metabolica potrebbe essere collegato all’uso, sempre più frequente, di additivi negli alimenti. Il parere degli esperti.
Nella pubblicazione dei ricercatori americani, vengono chiamati in causa due emulsionanti molto utilizzati dall’industria alimentare: il polisorbato 80 (E433) e la carbossimetilcellulosa (E466). Somministrati per alcuni mesi a delle cavie, queste avrebbero manifestato l’alterazione del microbiota intestinale. In particolare, in relazione al costante e continuo aumento di casi di malattia infiammatoria intestinale registrate nell’ultimo secolo, i ricercatori non escludono che a favorirne la diffusione siano alcuni fattori ambientali, anche collegati alla dieta alimentare. E’ noto che per ragioni tecnologiche, nella preparazione di molti prodotti alimentari, l’impiego di additivi sia necessario per conferire al prodotto stesso le caratteristiche desiderate. Pertanto, il loro utilizzo può essere necessario per una migliore conservazione dell’alimento, per contribuire ad una sua migliore riuscita nel corso dell’intera filiera, o per fornire nutrienti specifici e necessari per la dieta di alcuni consumatori. In merito, utili informazioni sono acquisibili attraverso il Corso di Aggiornamento Professionale on line di Macchine Alimentari, disponibile nel sito www.tecnichenuove.com. Nel caso specifico, gli emulsionanti, e quindi anche il polisorbitolo 80 e la carbossimetilcellulosa, sono tensioattivi che presentano la proprietà di stabilizzare termodinamicamente i sistemi dispersi, riducendo la tensione superficiale. Sono usati oltre che per la funzione emulsionante, come agenti antiraffermo, antischiumogeni, disperdenti, bagnanti, antispruzzo, agenti di distacco, aeranti e per controllare la cristallizzazione.
Polisorbitolo 80 e carbossimetilcellulosa
Il tipico parametro che caratterizza e definisce un emulsionante è rappresentato dall’indice definito dal bilancio idrofilo-lipofilo HLB (Hydrophilic/Lypophilic Balance) e, nel caso del polisorbitolo 80, tale indice è pari a 15, ciò che lo classifica come agente solubilizzante e detergente. Questo emulsionante, molto solubile in acqua e in alcool, è un copolimero ottenuto dall’unione del sorbitolo con l’ossido di etilene esterificato con acido oleico in condizioni moderate di temperatura e pressione, in presenza di catalizzatori alcalini. E’ utilizzato per solubilizzare sostanze lipofile in matrici idrofile in farmacologia, cosmesi e in diversi prodotti del settore alimentare, quali quelli da forno, dessert, gelati industriali, caramelle, chewing-gum, salse e zuppe liofilizzate. Interessante il suo utilizzo nell’industria degli aromi e dei coloranti alimentari per disperdere le frazioni in modo omogeneo nei prodotti finali o le vitamine liposolubili in acqua. La carbossimetilcellulosa invece, è prodotta da cotone e da polpa di legno mediante reazione con soluzioni alcaline di idrossido di sodio, seguite da trattamento con acido monocloroacetico e successiva neutralizzazione e lavaggio con alcool o acetone. La sua rapida solubilizzazione in acqua fredda e calda consente di controllare adeguatamente la viscosità delle soluzioni, senza formazione di gel. Pertanto, oltre che come agente di sospensione, è usata anche come stabilizzante ed emulsionante. Per le sue caratteristiche trova molte applicazioni; in particolare, viene utilizzata nei prodotti da forno per facilitare la preparazione degli impasti, migliorare il volume finale mantenendo una crosta più fine e riducendo l’evaporazione di acqua con miglioramento della morbidezza del prodotto finale. Inoltre, nei prodotti senza glutine, aiuta a migliorarne la struttura simulando la funzionalità del glutine stesso. Ulteriori applicazioni si trovano nei settori del latte (ad esempio per complessare la caseina) e in enologia (per favorire la stabilizzazione tartarica). Spesso, infine, la carbossimetilcellulosa è impiegata per generare sinergie con ulteriori additivi, quali altri colloidi (nei gelati per il controllo della cristallizzazione dell’acqua e per aumentarne volume e sofficità; nelle bevande per migliorare la sospensione dei solidi; per evitare fenomeni de-emulsionanti nelle salse e, se presenti oli essenziali, nelle bibite). Oppure con carragenine e amidi (nei dessert per migliorarne la struttura) o con zuccheri (per la preparazione di sciroppi a basso punto di congelamento).
Approvazione di additivi alimentari
Gli additivi, prima della loro commercializzazione nel settore alimentare, vengono approvati dall’Unione Europea su parere dell’Efsa, l’organismo di consulenza per la sicurezza alimentare. Tale approvazione avviene sulla base di test tossicologici eseguiti su cavie. In base ai risultati si assegna all’additivo la dose giornaliera ammissibile (DGA), ovvero la quantità di una certa sostanza che, in base al peso del consumatore, può essere assunta giornalmente, anche per tutta la vita, senza rischi individuabili “allo stato attuale della conoscenza”. Già quest’ultima parte della definizione fa capire quanto la questione sia affatto risolta. Infatti, come è giusto che sia, lo stato della conoscenza è in continua evoluzione ed anche per questo, i ricercatori della Georgia State University mettono in discussione l’iter di approvazione degli additivi alimentari che, secondo il loro giudizio, è insufficiente ad evidenziare un possibile ruolo nell’insorgenza di malattie a carattere infiammatorio.
Il parere degli esperti
Per comprendere meglio lo studio dei ricercatori americani, abbiamo chiesto un parere a due esperti, il dottor Ernesto Carrega, tecnologo affermato nel settore dolciario con particolare riferimento a cioccolato, creme e gelateria e la dottoressa Benedetta Callegari, tecnologa e nutrizionista. Di seguito è riportata l’intervista fatta ai nostri esperti e dalle loro risposte, pur caratterizzate da una diversa visione dovuta alla loro specifica formazione, più tecnologica quella del Dr. Carrega, più orientata agli aspetti nutrizionale quella della dottoressa Gallegari, si evince una giusta prudenza nel giudizio dello studio americano perché, come ben sottolinea l’esperto tecnologo, non sarebbe la prima volta che allarmi e preoccupazioni emerse in passato, anche recente, non hanno poi trovato un pratico riscontro in successive verifiche, ne in evidenze scientifiche che giustificassero tali preoccupazioni.