Nuovi metodi di produzione, distribuzione e consumo degli alimenti; nuovi agenti patogeni; resistenza agli antibiotici; test rapidi per accertare la presenza di microrganismi sono sfide quotidiane per chi si occupa di ricerca nell’ambito della sicurezza alimentare e di formare futuri esperti del settore.
L’Università è un serbatoio di conoscenza dal quale il comparto alimentare può attingere per crescere. La ricerca universitaria può sviluppare una tecnologia o un prodotto ed affidarlo all’industria, migliorare l’esistente, affrontare direttamente il mercato grazie all’imprenditorialità di ricercatori che, aprendo proprie attività, testimoniano il valore del sapere scientifico e dell’innovazione. Ne abbiamo parlato con il dottor Giuseppe Comi, biologo, ricercatore di fama internazionale e professore ordinario di Microbiologia degli Alimenti, presso l’Università degli Studi di Udine.
Perché ha deciso di laurearsi in biologia?
Ero affascinato dai microrganismi. Fin da giovanissimo passavo ore davanti ad un piccolo microscopio osservando preparati e microrganismi recuperati da ogni genere di substrato, soprattutto da alimenti. Immaginavo un giorno di poterli coltivare e utilizzare. Una passione rafforzatasi durante gli ultimi anni del liceo, quando in TV guardavo con attenzione crescente documentari e programmi scientifici che illustravano studi biologici.
Come è arrivato alla specializzazione nel settore alimentare?
E’ stata una fortunata coincidenza. Frequentavo, come tirocinante per la preparazione della tesi di laurea, il laboratorio di analisi cliniche di un grande ospedale vicino al paese dove abitavo. Mi occupavo di agenti mutageni, ma non era la mia vocazione. Volevo dedicarmi ai microrganismi. Cercando un altro ente dove svolgere la tesi, mi imbattei, quasi per caso, nell’allora Istituto di Ispezione degli Alimenti di Origine Animale della Facoltà di Medicina veterinaria dell’Università degli Studi di Milano. Dopo essermi informato sugli argomenti di ricerca in corso, osai proporre uno studio di caratterizzazione microbica e chimica degli alimenti, per valutare l’interazione microrganismo-alimento. Il Direttore, professor Cantoni, ne fu entusiasta. La tesi divenne la mia prima pubblicazione e mi permise di continuare a frequentare l’Istituto, dapprima come ricercatore volontario, poi con il sostegno di borse di studio private. Sono nati così un proficuo sodalizio, tuttora in corso, e la mia conseguente specializzazione nel settore alimentare.
LA CARRIERA UNIVERSITARIA
Cosa l’ha spinta a continuare a lavorare in Università?
Dopo la pubblicazione della tesi, ho continuato a pubblicare i risultati delle mie ricerche, inizialmente su riviste nazionali ed in seguito su riviste internazionali. Tenevo anche diverse lezioni nell’ambito dei corsi erogati dall’Istituto di Ispezione degli Alimenti. Il mix di ricerca e docenza mi elettrizzava, mi sono impegnato a fondo per acquisire i titoli, vale a dire pubblicazioni, che mi avrebbero portato alla docenza universitaria.
Quali sono i doveri di un docente verso i propri studenti?
Far conoscere la cultura scientifica, far acquisire conoscenze e esperienze e soprattutto far capire quanto sia indispensabile sperimentare e non mai porsi nella condizione di accettare tutto passivamente, considerandolo certo o assoluto. A ciò si aggiunge l’obbligo di preparare futuri professionisti che possano spendere le proprie conoscenze nel mondo del lavoro.
Come è proseguita la sua carriera?
Dopo 10 anni di precariato, nel 1987 ho partecipato al concorso per professori associati, gruppo Microbiologia Agraria, l’ho vinto e il 7 maggio 1988 ho preso servizio presso la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Udine come titolare del corso di Igiene degli alimenti. Successivamente acquisii l’insegnamento di Microbiologia enologica e degli alimenti e Microbiologia Applicata alle Industrie Alimentari; corsi che tengo tuttora. La docenza andava di pari passo con la ricerca in microbiologia applicata alla produzione ed all’ igiene alimentare. Ho creato un gruppo di esperti ed abbiamo pubblicato, su riviste internazionali, numerosi lavori giudicati di buon valore scientifico. Nel 1999, presso la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Firenze, ho partecipato a un concorso libero e nazionale di idoneità a professore ordinario. L’ho vinto e nel marzo del 2000 sono stato chiamato presso la Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Udine nel ruolo di professore straordinario, titolare del corso di Microbiologia degli Alimenti. Quindi nel 2003 sono stato confermato nel ruolo di professore ordinario presso il medesimo ateneo. Ho continuato le ricerche microbiologiche a beneficio del settore alimentare, con una predilezione per la selezione e produzione di biomasse microbiche da utilizzare per la produzione di alimenti. Mi sono occupato a lungo e mi occupo tuttora di ricercare e valorizzare culture atte a bio-proteggere gli alimenti.
LE CULTURE BIOPROTETTIVE
Cosa intende per bio-protezione degli alimenti?
Si intende utilizzare microrganismi riconosciuti “salubri” per contrastare, direttamente nell’alimento o nelle sue materie prime, l’attività di determinati microrganismi patogeni. Crescendo, i microrganismi “buoni” inibiscono lo sviluppo dei patogeni o li inattivano uccidendoli, consentendo, tra l’altro, di prolungare la shelf life del prodotto.
Quali sono le principali colture microbiche bio-protettive che avete finora individuato?
Sono biomasse di microrganismi di un’unica specie o di associazioni di più specie che abbiamo aggiunto ad una materia prima o ad un prodotto finito. Hanno una duplice azione metabolica: favoriscono la maturazione e/o la stabilità dell’alimento, inibiscono o uccidono i microrganismi patogeni o tossinogeni (es. Listeria monocytogenes, E. coli, Salmonella spp. ed altri ancora). Possono anche limitare lo sviluppo di microrganismi deterioranti.
Quali microrganismi sono coinvolti?
I microrganismi coinvolti comprendono: Batteri lattici, cocchi coagulasi negativi (Staphylococci non patogeni, Micrococchi) o muffe (per esempio Penicillium nalgiovense usato sui salami per favorire la maturazione e contrastare lo sviluppo di muffe produttrici di micotossine). Queste culture sono abitualmente utilizzate nella produzione di alimenti fermentati che, proprio grazie alla fermentazione, hanno una durabilità superiore a quella degli alimenti non fermentati ottenuti dalle stesse materie prime. La prolungata shelf life è il risultato del metabolismo delle colture che inducono la fermentazione. Si instaura un complesso sistema di competizione per i nutrienti, per i siti cui si legano le molecole, nonchè attraverso la produzione di metaboliti inibitori. Le culture microbiche bioprotettive sono utilizzabili non solo nei classici alimenti fermentati ma anche in alimenti con pH relativamente alto ed una elevata quantità di acqua libera. I principali requisiti per poterli impiegare sono l’assenza di rischi per la salute umana, ossia non essere tossinogeni o patogeni, non produrre ammine biogene o altri metaboliti pericolosi per la salute. I microrganismi scelti devono potersi adattare bene al substrato, la loro attività protettiva deve essere affidabile e coerente con gli obiettivi, deve potersi prevedere la loro attività metabolica ed enzimatica specifica (per esempio la non gasogenicità o la possibilità di produrre acido lattico alle concentrazioni previste).
Quali sono i principali meccanismi di bioprotezione?
Lo sviluppo di patogeni è inibito o ridotto soprattutto attraverso una competizione a livello di substrato (i bioprotettori crescono più velocemente dei patogeni e ne inibiscono o impediscono lo sviluppo); attraverso la produzione di composti a basso peso molecolare per esempio acidi organici (es. acido lattico, acido acetico, acido propionico), alcol, CO2, diacetile, perossido di idrogeno); attraverso la produzione di batteriocine (antibiotici non dannosi per il consumatore) ed altri composti a basso peso molecolare, per esempio dipeptidi ciclici, che hanno un effetto inibitorio sulle muffe.
Come vanno considerate queste culture aggiuntive?
Sono un fattore di sicurezza in più contro lo sviluppo e la sopravvivenza di potenziali microrganismi patogeni o deterioranti. Ovviamente non devono incidere negativamente sulle caratteristiche qualitative dell’alimento dove sono utilizzate. Se correttamente conservato, il prodotto finito migliorerà non solo in termini di salubrità ma anche a livello sensoriale ed edonistico.
Ci sono limiti legali al loro impiego?
No, sono microrganismi il cui utilizzo è permesso dalla legislazione alimentare in quanto ritenuti GRAS (generally recognised as safe). I limiti potrebbero essere pratici, perché in alcuni prodotti la loro crescita comporta un’eccessiva acidificazione o la formazione di patine indesiderate. Il loro impiego deve quindi essere di volta in volta ben valutato.
Come reagiranno i consumatori?
Prevedo che reagiranno bene, perché viene salvaguardata la loro salute.
Ci sono particolari progetti su quali sta lavorando in questo periodo?
Con il mio gruppo di ricerca sto applicando la bio-protezione a prodotti di salumeria, per limitare la crescita di patogeni quali Escherichia coli enteroemorragici e Listeria monocytogenes, utilizzando batteri lattici produttori di batteriocine. Mi occupo inoltre di selezione di microrganismi produttori di batteriocine; di selezione di microrganismi realmente probiotici; di alterazioni di origine microbica in particolare di Clostridi in prodotti di salumeria.
Tra le sue ricerche più citate vi è il confronto tra cottura sous vide e cottura tradizionale di molluschi. Ha riscontrato differenze significative tra i prodotti sottoposti a questi due diversi metodi di cottura?
La ricerca ha dimostrato che la cottura sous vide, in condizioni di bassa temperatura controllata e stabile all’interno di buste sotto vuoto, è da ritenersi migliore rispetto alla cottura tradizionale. Preserva meglio la qualità dei molluschi e prolunga la shelf-life fino a 21 giorni a temperature di frigorifero. La durabilità può ulteriormente aumentare se, prima del trattamento, ai molluschi si aggiunge del sale. Nel prodotto salato e cotto sous vide si ha una sensibile riduzione della crescita microbica post-trattamento. Il prodotto è più gustoso, consistente e turgido rispetto a quello cotto con il metodo tradizionale.
A cosa si devono queste differenze?
La sigillatura sotto vuoto migliora l’efficienza del trasferimento di calore dall’acqua o dal vapore ai molluschi, elimina il rischio di ricontaminazione durante lo stoccaggio, rallenta l’ossidazione, la perdita di composti aromatici volatili e di umidità in fase di cottura, limita la crescita dei batteri aerobi. La tecnologia è applicata regolando la temperatura di cottura appena sopra la temperatura finale interna dell’alimento intorno a (0,5 – 1 °C in più). I tempi si allungano, ma il prodotto arriva a temperatura in modo molto rapido perchè la conducibilità termica dell’acqua è superiore a quella dell’aria.
Si parla molto di sviluppo e validazione di nuovi metodi di analisi non convenzionali per la caratterizzazione di patogeni in alimenti ed animali da allevamento, a che punto siamo?
Da anni con il mio gruppo di ricerca mi occupo anche di metodi molecolari per una rapida valutazione di microrganismi patogeni negli alimenti. Abbiamo prodotto e messo a punto tecniche PCR, PCR-DGGE, RT-PCR. Sono test rapidi con risposte oggettive, che non lasciano dubbi sull’interpretazione dei risultati. In particolare ci siamo occupati di E. coli enteroemorragici, Salmonella spp., Yersinia spp., L. monocytogenes e Clostridi. In realtà in tutto il mondo, ogni anno, sono prodotti e messi punto metodi rapidi per la determinazione dei patogeni. Tali metodi hanno il vantaggio di dare risultati in breve tempo e di permettere l’adozione di azioni correttive in tempi altrettanto ridotti.
IL TRASFERIMENTO TECNOLOGICO
Che caratteristiche deve avere un bravo ricercatore?
Deve essere preparato scientificamente, disponibile al lavoro in team, deve porsi degli obiettivi ed avvalersi di tutte le proprie risorse e competenze per raggiungerli.
Suggerirebbe ad un neolaureato che volesse intraprendere questo percorso di dedicarsi alla ricerca pura o alla ricerca applicata?
L’Università offre entrambe le possibilità, si occupa, da sempre, di ricerca di base e applicata. Personalmente preferisco la ricerca applicata. Da diversi anni, ormai, io ed il mio team lavoriamo soprattutto con l’industria privata.
A che punto è il trasferimento tecnologico al settore alimentare?
Ha fatto passi da gigante, soprattutto in ambito microbiologico. Mi riferisco per esempio alla selezione di microrganismi da impiegare come starter per migliorare o bioproteggere le produzioni alimentari ed alla ricerca di metodologie rapide per individuare i patogeni negli alimenti.
Cosa si può fare per migliorare?
Le aziende private dovrebbero avere più fiducia nei ricercatori universitari ed investire in ricerca. In Italia i gruppi di ricerca pronti a studiare nuovi processi e tecnologie alimentari e nuovi prodotti sono tanti e ben preparati. Lo dimostrano i tanti brevetti depositati.
Un sogno nel cassetto…
Ne ho una infinità, due su tutti: selezionare un microrganismo realmente probiotico e un batterio lattico capace di eliminare completamente un patogeno (tolleranza 0) da una materia prima o da un alimento.