Sara Spilimbergo, ricerca e docenza universitaria al servizio del settore alimentare

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Perché lavorare su questo argomento?
C’erano parecchi studi sull’applicazione di questa tecnica ai liquidi alimentari, ma poco o nulla sui solidi. Per stabilire i parametri di processo ottimali per trattare ciascuna tipologia di prodotti abbiamo studiato la cinetica di inattivazione della loro microflora superficiale, considerando quella naturalmente presente sul prodotto e specifici patogeni (Salmonella enterica, Escherichia coli, Listeria monocytogenes), inoculati a tale scopo.

Che risultati avete avuto?
Lavorando, per 15-20 minuti, a temperature di poco superiori a quella ambiente ed a pressioni attorno ai 100 bar, la carica batterica superficiale si riduce drasticamente. Abbiamo monitorato i prodotti subito dopo il trattamento e dopo alcune settimane di stoccaggio, rilevando le variazioni di pH, acidità totale, colore, carica microbica, caratteristiche nutrizionali e sensoriali, consistenza e struttura microscopica dei campioni. La shelf-life dei prodotti trattati si allungava in modo rilevante.

Avete anche studiato il comportamento metabolico e della membrana citoplasmatica delle diverse cellule batteriche, che tecniche avete usato? Cosa avete scoperto?
Per l’analisi quali – quantitativa del metabolismo e della membrana citoplasmatica delle diverse specie microbiche patogene, prima e dopo la pastorizzazione, abbiamo utilizzato la citometria e la real time PCR. Nei substrati solidi il meccanismo non è ancora del tutto noto, ma ipotizzando che sia simile a quello riscontrato nei liquidi si ritiene che la CO2 interagisca con alcuni componenti delle membrane cellulari batteriche, modificandone struttura e chimica fino a provocare l’irreversibile denaturazione delle proteine.

Come avviene questo processo?
Le membrane si espandono, perdono la loro corretta funzionalità e permettono l’estrazione di materiale citoplasmatico. La CO2 modifica anche il metabolismo cellulare. Il meccanismo sembra dipendere dal tipo di battere e dall’ambiente dove si opera; potrebbe essere una combinazione di cambiamento del pH, alterazione e permeabilizzazione della membrana.

RIDURRE LA LISTERIA
In precedenza si era dedicata ad uno studio per la riduzione della concentrazione di Listeria sulla superficie dei prosciutti…
Quando nel 2007 ho vinto il “Premio Montana alla ricerca” ho avuto diversi incontri con l’azienda. Avevamo discusso del problema dell’esportazione del prosciutto crudo in Paesi come America ed Australia dove le normative CFSAN/FSIS 2003 (per gli USA) e ANZFA 2001 (per Australia e Nuova Zelanda) prevedono un limite massimo di 0,04 unità formanti colonie per grammo. In Europa il limite è di 100 unità formanti colonie per grammo e se il produttore non raggiunge questo obiettivo il criterio utilizzato è “non individuato in 25 g”, prima che il prodotto lasci lo stabilimento per entrare nel circuito distributivo. Nessun trattamento tradizionale garantisce il limite di 0,04 CFU/g sui prosciutti interi, inoltre porzionatura e confezionamento possono ricontaminare il prodotto perché non è facile eradicare la Listeria dagli ambienti di lavorazione.

La stagionatura dei prosciutti non è un deterrente naturale per lo sviluppo di questo pericoloso patogeno?
All’inizio della lavorazione i prosciutti hanno attività dell’acqua inferiore a 0.92 ed un’alta concentrazione salina (superiore al 4%). Questi valori non favoriscono lo sviluppo di Listeria. Qualora il battere fosse presente nelle materie prime, la sua concentrazione tenderebbe comunque a diminuire durante la stagionatura. Il pericolo deriva invece da una possibile ricontaminazione durante le lavorazioni successive: disossatura, porzionatura, confezionamento. I trattamenti a caldo (85°C per 10 secondi) modificano le caratteristiche organolettiche del prodotto e per questo si sono cercati altri metodi.

 Schema di impianto per liquidi da diverse angolazioni

Schema di impianto per liquidi da diverse angolazioni